Cosa vuole Renzi in Europa
Se ci si ferma solo alla forma, alla forma della battaglia in corso tra il governo italiano e la Commissione europea, bisogna mettere insieme in modo freddo le notizie di cronaca unendo semplicemente alcuni puntini. Dopo una settimana di cannoneggiamenti sull’Europa – Padoan ha detto che se la nostra manovra non viene accettata l’Ue è morta, Renzi ha detto che sui migranti siamo pronti a bloccare il bilancio Ue – ieri sono arrivati messaggi contraddittori. L’Europa cannoneggiata ha ridimensionato la portata del cannoneggiamento (Moscovici, commissario agli Affari economici, ha invitato a non fare drammi), mentre il presidente dell’Italia cannoneggiatrice ha invitato il cannoneggiatore a non scherzare troppo con il fuoco (Mattarella ha richiamato all’ordine chi critica eccessivamente le regole europee). Dunque, come sempre, non si capisce nulla. Ma questa battaglia esiste oppure no? E soprattutto, se esiste, è legata solo a quello 0,1 per cento di deficit in più (2,4 invece che 2,3) che il governo chiede di poter utilizzare all’interno della sua Legge di Stabilità? Se ci si limita a seguire la partita in corso solo osservando la parte più superficiale della discussione si avrà una certa difficoltà a capire cosa stia succedendo. Ma se si prova ad allargare l’inquadratura si può intuire meglio il senso di un messaggio che a fatica Renzi sta provando a portare in Europa.
Un messaggio che si può condividere oppure no ma che comunque va inquadrato, per provare a fare un passo in avanti e ragionare su un tema che riguarda non solo l’Italia ma più in generale il tentativo di arginare le forze anti establishment nel continente. Il problema in fondo è tutto lì: se è vero che i modelli adottati fino a oggi in Europa hanno incentivato e non scoraggiato la crescita dei populismi, che cosa si può fare oggi per sfidare le forze anti sistema? Il pacchetto proposto dal presidente del Consiglio prevede due metodi che vale la pena approfondire. Il primo riguarda la politica economica, il secondo la politica istituzionale. Sulla politica economica il messaggio che Renzi sta lanciando all’Europa è un tentativo complicato ma non impossibile di far coesistere in un unico progetto il modello Merkel e il modello Tsipras. Come Tsipras, e come i leader socialisti, Renzi chiede all’Europa di superare in fretta l’èra dell’austerità attraverso la promozione di politiche espansive. Come Merkel, Renzi considera credibile un paese che chiede di superare l’austerità solo se lo fa all’interno delle regole europee (credibile non solo agli occhi della Commissione ma anche a quelli dei mercati, dettaglio non trascurabile per un paese su cui pesa un debito pubblico pari al 130 per cento del pil). Il mix di questi due progetti – pragmatismo di governo, rispetto per i mercati, adozione delle politiche di destra per quanto riguarda fisco e lavoro e adozione delle politiche di sinistra per quanto riguarda la previdenza e la tendenza a utilizzare di più i cordoni della borsa che il taglio delle tasse per finanziare i progetti di governo – è una miscela unica in Europa. E quando Renzi chiede di avere campo libero per andare avanti su questa strada è come se chiedesse un’investitura ai grandi dell’Europa per tentare un esperimento importante ma complicato: ridimensionare le forze anti sistema non sfiancandole ma sfidandole con un progetto di governo ideologicamente trasversale. Accanto a questo metodo, Renzi, attraverso l’iter della riforma costituzionale, sta provando a imporre un altro concetto che a poco a poco (vedi la Spagna) inizia a far presa in qualche paese europeo. Ieri sul Corriere della Sera Antonio Polito ha giustamente notato che le grandi coalizioni (vedi ancora la Spagna) stanno tornando a essere di moda ma in quel ragionamento manca un passaggio importante: l’Europa può permettersi di trasformare una forma di governo straordinaria, come la grande coalizione, in una forma di governo sostanzialmente ordinaria, specie in un contesto, come quello europeo, in cui i partiti che fanno parte delle grandi coalizioni tendono, proprio a causa delle grandi coalizioni, a vedere sempre più ridotto nel tempo il proprio bacino di consenso? La scommessa di Renzi, dal punto di vista istituzionale, è quella di seguire una strada poco battuta non solo in Italia ma anche nel resto d’Europa e che prevede un passaggio chiave: le forze anti sistema si possono battere sfidandole (premio di maggioranza) e non sfiancandole (grande coalizione) e il modo migliore per batterle è creare un mercato aperto della politica in cui chi vince le elezioni, anche solo per un voto, può avere concretamente la capacità e i numeri per governare e prendere decisioni, anche a costo di fare una forzatura in termini di rappresentatività del paese e anche a costo di rischiare che, diciamo così, siano i cattivi a vincere (tesi diametralmente opposta rispetto a chi considera prioritario combattere le forze anti sistema con regole costruite in modo tale da impedirgli di andare a governare).
Il succo della partita di Renzi in Europa è più o meno questo. Ma al premier italiano, per giocare una partita credibile, non basta non sforare il tre per cento e non basta auto nominarsi antidoto ideale contro i populismi. Occorre qualcosa di più. Qualcosa che ieri ha sintetizzato perfettamente il Wall Street Journal in un editoriale scritto a sostegno del governo italiano: bene la manovra, almeno sulla parte fiscale; bene la scelta di sfidare l’Europa a trazione merkeliana (la sfida sul deficit è stata elogiata anche dal Financial Times); ma attenzione, caro Renzi a non sacrificare il riformismo sull’altare delle scelte “popolari” solo per garantirti la vittoria al referendum: i populismi si battono sfidandoli, non rincorrendoli. Il succo della partita dell’Europa, e anche dell’Italia, oggi in fondo è tutto qui.