Rischio “in piazza con Di Maio”. Quando il Pd minoritario si fa un po' M5s
Roma. Ma quanto si borbotta nel Pd, questo è il problema (e non da oggi). Solo che oggi c’è un rischio in più. Non è infatti più soltanto una questione di “andare in piazza” o no con Matteo Renzi, come sa il Gianni Cuperlo criticato dai colleghi di minoranza Pd per la scelta di non disertare la giornata referendaria promossa dal premier, sabato scorso. Né è più soltanto un lento prepararsi al congresso rendendo compatte le truppe contro il Rottamatore dalla doppia poltrona (di segretario e presidente del Consiglio). Essere minoranza Pd e mantenersi tale senza diventare altro da sé: questo è il punto, specie in giorni in cui il farsi “altro” rischia di far assomigliare la minoranza pd a una succursale corretta e moderata del grillismo (e allora tanto vale andare in piazza con Di Maio e colleghi).
Capita infatti che il clima pre-referendario favorisca la convergenza di intenti – ma a volte pure di lessico – tra nemici non più così nemici. Ed è come se stesse silenziosamente tornando a galla il vecchio sogno bersaniano di uno “scouting”, ma traslato su altri fronti (non la formazione di un governo, ma magari la caduta di questo – e poi c’è Roma, il referendum, l’economia). Ed ecco che, pur non arrivando a paragoni arditi (tipo quelli del Di Maio che accosta Renzi a Pinochet), la battaglia per il No porta gli avversari del Sì, che militino nelle sotto-truppe di Massimo D’Alema o meno, a sintonizzarsi, all’interno del Pd, sulla tipica argomentazione più volte espressa in tv o ai convegni del No dal prof. Gustavo Zagrebelsky (argomentazione che tanto piace ai Cinque stelle).
Il ragionamento, udibile presso consessi di antirenziani pd come presso conciliaboli parlamentari di grillini ortodossi e meno ortodossi, è che mai e poi mai si deve cedere alla sirena che dice “riformiamo perché ce lo chiede l’Europa”: l’Europa, dicono gli alleati anti-Sì all’unisono, in “materia economico-sociale” va verso “l’ultra-liberismo” (o comunque verso un liberismo che prevede “erosione costante del welfare”), motivo per cui la riforma “approvata” dall’Europa ultraliberista (per non dire dagli Stati Uniti di Barack Obama), è da respingere in blocco, vuoi per nostalgie socialdemocratiche (nel Pd) vuoi per avversione contro la casta “del Bilderberg” nascosta dietro le tende delle varie cancellerie (nel M5s).
C’è poi il Parlamento. Anzi “questo Parlamento”, come dicono i pasionari del No. “Questo Parlamento” che presso la minoranza pd non può essere chiamato “illegittimo” come presso ampi settori del M5s, ma che assume, nell’immaginario collettivo comune ai dem in lotta contro il segretario-premier e ai grillini più agguerriti, i contorni di un mostruoso cavallo di Troia del renzismo. Mantra comune: con “questo Parlamento” si è rotto “il rapporto di rappresentanza”, la democrazia è “minacciata” e il premio di maggioranza “ha scollato” gli eletti dagli elettori. Terzo argomento borderline, in bilico tra settori antirenziani Pd e settori di confine a Cinque stelle, il discorso su “diseguaglianze, periferie&crescita”. Appena in un talk show parla un esponente della maggioranza dem, l’esponente della minoranza dem, ma pure il Cinque stelle, tira fuori uno dei suddetti argomenti passe-partout (o tutti e tre).
Quando poi ci si sposta a Roma, dove nel Pd, cinque mesi fa, si è consumato l’ulteriore dramma della non-elezione di Roberto Giachetti, si assiste a conversazioni in cui i dem minoritari pregano gli interlocutori dem maggioritari e iper-critici con il sindaco Virginia Raggi, di non attaccare il sindaco Raggi con quella virulenza “settaria”, ma di “lasciarla lavorare” (cavallo di battaglia retorico: “Avete buttato giù Ignazio Marino e gli elettori vi hanno puniti”). E a quel punto è totale sindrome di Stoccolma: elettori Pd pentiti che non possono dirsi sostenitori sottobanco dei Cinque stelle, questo no, ma che neanche troppo nascostamente preferiscono non parlar male di Raggi (e parlar male di Renzi).