Pierluigi Bersani (foto LaPresse)

Il grande errore del mio amico Bersani

Umberto Minopoli
Renzi ha sbagliato a emarginare Bersani, ma oggi l’ex segretario del Pd è caduto in una trappola fatale: immaginare che il futuro della sinistra sia un’alleanza con il movimento 5 stelle, rinunciare a competere con il dalemismo e non capire che la sinistra non c’è più. Lettera di un bersaniano tradito da Bersani.

Opinione di un antico bersaniano. Mi sono sempre definito e sentito un bersaniano. Per due motivi: perché, a confronto di tutti i passati leader post-comunisti, Bersani è un riformista alla prova dei fatti. Uno che, in Italia, ha legato il suo nome a  un ciclo di riforme che, prima di Renzi, avevano il loro uguale solo in alcune fasi dei governi di centrosinistra degli anni Sessanta; perché, a differenza di Occhetto, D’Alema e Veltroni, Bersani è stato il primo leader post-comunista ad accettare la novità strategica del Pd: il passaggio da partito di sinistra ad una formazione di centrosinistra, nata da un patto strategico tra la sinistra di governo e  la tradizione popolare della Dc. L’ulivismo, con tutte le sue contraddizioni, era questo per Bersani. Non un’ennesima versione del frontismo. Per queste due ragioni (riformismo e centrosinistra) io, migliorista da sempre, ho sostenuto e apprezzato Bersani. Ho anche ritenuto, in base a questo, che Renzi avesse sbagliato con Bersani: che non avesse compreso, a mio avviso,  la diversità e la specificità di Bersani rispetto a “quelli di prima”,  ai leader post-comunisti. Renzi ha sottovalutato la maggiore prossimità strategica di Bersani, la sua integrabilità nel progetto di un Pd di centrosinistra (e non più di sinistra esclusiva) come implicito nella stessa rivoluzione renziana. Renzi e Bersani avrebbero dovuto collaborare invece di litigare. Nonostante le primarie. Bersani non doveva essere rottamato né ridursi a capo corrente. Il governo, a fianco di Renzi, era il suo luogo naturale: in esso Bersani avrebbe rappresentato l’indispensabile sensibilità, socialdemocratica e pragmatica, di un Pd competente, di governo e di centrosinistra: il Pd di Renzi. Emarginare Bersani, schiacciarlo su “quelli di prima”, rinunciare a integrare uno dei leader più riformisti della storia post-comunista è stato un errore. Strategico. Lo ribadisco. Ora, però, è Bersani che sbaglia a sua volta. E si comporta, mi spiace dirlo, in modo, inaspettato e incomprensibile, per me bersaniano e migliorista. E commettendo errori, purtroppo, non piccoli. Errori di un Bersani di oggi che è molto diverso dal Bersani di ieri. Tralascio il passaggio referendario, incoerente e mal motivato, dal sì esplicito di ieri al no di oggi: mi arrendo solo al proverbio (a lui piacciono) “un uomo non è di legno”. Mi interessano di più gli errori politici di Bersani. Primo errore: il Bersani di ieri, ulivista e riformista, uomo di buon senso popolare e pragmatico per storia personale e origini (direi), non avrebbe mai preferito una “non riforma”, quella del No, a una riforma che, in ogni caso, introduce un cambiamento di qualità (il monocameralismo o bicameralismo differenziato) nello stagnante assetto istituzionale italiano. Lui, più di tutti sa, per esperienza, che le riforme non sono modelli astratti e perfetti ma processi perfettibili: modificare il bicameralismo perfetto (o precisare il rapporto Stato/ Regioni) val bene qualche “rospo” (ad esempio, la tecnica elezione dei futuri senatori). Uno si sarebbe aspettato questo da Bersani.

 

Secondo errore: il futuro del Pd. L’idea del Partito democratico, alleanza di centrosinistra e riformista, come perno e garanzia di ogni prospettiva realistica di cambiamento politico, è stato più volte teorizzato da Bersani,  anche in polemica con estremizzazioni uliviste, in tempi non sospetti. Sfidando, persino, la satira  svillaneggiante  e spregiativa alla sua idea pragmatica di “ditta”. Ora il  Bersani di oggi compie lo strappo imprevisto: dichiara, nei fatti, la rottura del Pd. E opera attivamente per una sconfitta del Pd. E per il suo, inevitabile, superamento: lui sa che lo strappo operato col suo No contiene una conseguenza irreversibile e inevitabile: che vinca il Si no il No il 4 dicembre, non ci sarà più il Pd dei fondatori ma un nuovo Pd, anche formalmente, di Renzi. Sconfitto o vincitore, il Pd sarà quello di Renzi. Il referendum diventerà la constituency di un nuovo Pd e le elezioni politiche future il suo atto di nascita. E’ questo che vuole la minoranza di Bersani? Da loro punto vista, non ne capirei il senso: è solo un errore strategico.

 

Terzo errore: contrapporsi, come fa Bersani oggi, alla prospettiva di un centrosinistra aperto ai moderati. Io ricordo che sostenevo Letta e Bersani (e Monti) e diffidavo del primo Renzi, quello d’assalto, per il motivo esattamente opposto: il Pd di allora, prima delle elezioni del 2013, teorizzava, d’intesa con Giorgio Napolitano, e contro il Renzi di “movimento”, la necessità della coalizione con quella parte dei moderati che non rinunciava al disegno di un centrodestra irriducibile alla destra. Ora Bersani dice il contrario. E accusa Renzi  (partito della Nazione, alleanza con il centrodestra di Alfano, mostrificazione di Verdini), esattamente, di quell’apertura del Pd ai moderati di centrodestra che è stata l’essenza della politica del Pd, di Letta e Bersani, fino alle elezioni del 2013. Una prospettiva di coalizione che Bersani riteneva, lo ricordo bene, superabile solo con una riforma del sistema elettorale che sancisse ( ricordo il premio di lista come medaglia del Pd bersaniano) una dialettica politica “europea” tra centrosinistra e centrodestra. Tutto dimenticato. Oggi, addirittura, Bersani tesse le lodi del proporzionale: la forma elettorale che renderebbe eterni i governi di coalizione.

 

Intuisco la risposta di Bersani: la dialettica politica, in Italia, è cambiata. La novità dei 5 stelle modifica la geografia politica. Ma è proprio così? E’ vero che c’è il tripolarismo. Ma direi: attenzione, è imperfetto. Lo si voglia o no, siamo regrediti da un auspicabile bipolarismo destra-sinistra a un nuovo potenziale bipolarismo, nei fatti: quello tra Sinistra e 5  stelle, con la destra nei panni di un succube indebolito, declinante ed evanescente. Altro che tripolarismo. I 5 Stelle sono oggi il polo di una dialettica, nei fatti, bipolare: tra un’area politica “repubblicana” (da Renzi alla destra moderata) e una “populista” (dai 5 stella a Salvini e alla destra-destra). E l’Italia, unica in Europa, è il solo paese in cui questa “alternativa populista” può diventare governo. Solo Napolitano ha sollevato questo allarme. Il Bersani di prima (perfino quello che si illuse di usare i 5 Stelle per garantire la governabilità nel 2013) non avrebbe mai compiuto l’errore, per me incomprensibile, di dichiarare oggi che il “nemico resta la destra”. Che, invece, non è il pericolo. Almeno oggi. Che vuol dire, allora, chiedo a Bersani affermare insieme: “il nemico e’ a destra” e “va reintrodotto il proporzionale”? La logica non è un’opinione: Bersani prospetta una alleanza con i pentastellati. Un suicidio. E del tutto irrealistico. Per i pentastellati, inevitabilmente e a ragione, “il nemico non sta a destra”: l’avversario per loro è il Pd. E’ semplicemente sconcertante e infantile quella parte della sinistra  che non si  rende conto di questa verità: i 5 stelle sono l’avversario da battere. E per questo è inevitabile allargare ai moderati il perimetro di un voto “repubblicano” contro il populismo. Ecco i tre errori strategici del mio amico Bersani. Che per me hanno un’origine: Bersani ha rinunciato a competere col dalemismo. Ha avuto timore di contrapporsi a D’Alema. Che non è mai stato una persona tenera verso Bersani. Che non è mai appartenuto alla sua scuola politica: D’Alema è un vero conservatore della Prima Repubbilca, un post-comunista esplicito. Bersani, a suo modo, è un riformista. Per D’Alema, pessimista, l’Italia può essere guidata solo da  governi d’emergenza retti da notabili. Bersani, per lui, è un prodotto avventurosa della seconda o terza repubblica, più o meno come Renzi. Bersani ha avuto paura dell’atto politico che avrebbe dovuto compiere: staccarsi dal conservatorismo dalemiano, opporsi a D’Alema (anche restando distinto da Renzi). Questo avrebbe sancito, tra l’altro, l’esistenza nel Pd di una minoranza (bersaniana) distinta da un’opposizione (dalemiana). D’Alema ha, legittimamente, una visione politica che non contempla l’esistenza del Pd. Occorre avere il coraggio di dirlo. D’Alema è un pessimista. La sua lettura è quella di un intero ceto politico che, perfino con una certa dignità, è allarmato dalla piega che può prendere la transizione italiana: l’Italia, per D’Alema resta un paese in emergenza, governabile solo da governi illuminati, tecnici o istituzionali, non pronto, per natura, cultura e condizioni, a riforme normalizzatrici e  modernizzanti di alternanza. Una posizione, quella di D’Alema, autenticamente conservatrice. La scommessa del Pd è stata diversa: non piegarsi all’anomalia italiana,  accettare la sfida delle riforme e della modernizzazione; investire sul compimento della transizione misurandosi con la fattibilità e la praticabilità di un’innovazione di sistema, di riforme istituzionali e del modello di governo (riforma elettorale). Piaccia o no, è questa la differenza di prospettive tra Renzi e D’Alema. La prima, la scommessa di Renzi, suppone la funzione di un partito che, pur con una dialettica interna, guida il processo riformista. La seconda, il pessimismo di D’Alema, sconta il commissariamento del ceto politico, prescinde dal ruolo del Pd e produce il rallentamento delle riforme. Secondo me, Bersani doveva stare con la prima prospettiva.