Matteo Renzi al Supercinema 2.0 di Latina (foto LaPResse)

L'intellettuale super partes in Italia non c'è più

Quando applicando su noi stessi i metodi della ricerca storica siamo condotti a scoprire le ragioni delle nostre convinzioni, spesso constatiamo che esse sono accidentali, che derivano da circostanze di cui non siamo responsabili. E forse, vi è implicita una lezione di tolleranza.

Quando applicando su noi stessi i metodi della ricerca storica siamo condotti a scoprire le ragioni delle nostre convinzioni, spesso constatiamo che esse sono accidentali, che derivano da circostanze di cui non siamo responsabili. E forse, vi è implicita una lezione di tolleranza. Se si è ben compreso ciò, si è indotti a chiedersi se vale la pena di massacrarsi gli uni con gli altri per convinzioni la cui origine è così fragile”. Queste parole del grande Elie Halévy, tratte dalla sua opera più nota, “L’èra delle tirannie”, mi tornano alla mente ogni volta che leggo articoli o dichiarazioni di giornalisti e di colleghi, come me impegnati nel lavoro intellettuale, che intervengono a sostegno del No al referendum del 4 dicembre.

 

Non intendo entrare nel merito della riforma costituzionale proposta da Matteo Renzi e avversata da una coalizione assai ampia, che ricorda quella che si formò contro la famigerata “Legge truffa” (1953) – che poi tanto  famigerata non era giacché costituiva un generoso tentativo di stabilizzare al centro il sistema politico, consentendo una governabilità vanificata dal proporzionale. In democrazia, come vado ripetendo da tempo, si vince ai punti, non per ko, nel senso che tutte le decisioni – anche quelle la cui positività ci sembra scontata – vengono prese con il convincimento che i loro lati buoni – gli inconvenienti che inevitabilmente si accompagnano a ogni  mutamento – siano più numerosi dei cattivi. Ci sono sempre valori che vengono sacrificati e altri privilegiati e le nostre scelte si giustificano dimostrando che i primi sono secondari e gli altri primari, secondo una gerarchia, però, che non può trasformare i valori in disvalori.

 

Che i politici si combattano a colpi di scimitarra è logico e naturale: a volte esagerano negli insulti e nei colpi bassi – vedasi il duello tra Clinton e Trump – ma, insomma, quello è il loro mestiere. Nel clima incandescente delle passioni è naturale, poi, che si facciano valere i più forti, i più spregiudicati, quelli in grado di mostrare muscoli da peso massimo. Il compito degli studiosi che intervengono nel teatrino della politica, invece, è un altro: è quello di contribuire a un confronto pacato tra le diverse posizioni, di far chiarezza sulle grandi questioni che agitano maggioranza e opposizione, di contribuire a un clima disteso anche quando ci si schiera apertamente e lealmente a favore di un’opzione. Ma è proprio quanto non si registra in Italia in questi mesi: gli intellettuali di professione, aspirando al ruolo di consiglieri del principe, gridano più forte degli altri, dovrebbero gettare acqua sul fuoco e, invece, fanno a gara a chi è più bravo e incisivo nel diffamare gli avversari.

 

Quando uno storico, peraltro benemerito per i suoi libri su Giolitti e sull’Italia umbertina, scrive di Renzi che “urla, azzanna. Corre da un’azienda all’altra, taglia nastri di opere ideate e avviate da altri come fossero sue, stringe mani di poveracci felici di apparire in televisione e di poveretti che sperano di averne chissà quale mance. Tra poco guarirà le scrofole allungando la mano dal teleschermo a reti unificate”, ci si chiede davvero dove siano finiti il senso della misura, l’indipendenza  e la “laicità” del pensiero. Lo storico in questione, tra l’altro, monarchico e di destra, definisce “sommo costituzionalista” quel Valerio Onida, già difensore del redditometro, che vede nella Costituzione non più soltanto “l’enunciazione di traguardi raggiunti”, ma “anche l’enunciazione di un programma, di obiettivi, obiettivi però vincolanti costituzionalmente”, con la conseguenza che “una legge la quale vada in direzione opposta a quella di un obiettivo costituzionalmente vincolante” diventa una legge incostituzionale. Un altro suo collega definisce toscanamente la riforma di Renzi “un troiaio giuridicamente parlando” e fa rilevare che non c’è costituzionalista serio che osi difenderla, dove il giudizio di valore (il troiaio), discutibile ma legittimo, si accompagna a un giudizio di fatto dettato chiaramente dalla malafede (giuristi che hanno firmato a favore della riforma ce ne sono molti, anche se non sono “seri”). Un altro ancora – d’area Fratelli d’Italia – scende in piazza per cantilenare anche lui “No, a un uomo solo al comando!”, dimenticando che, almeno fino ai primi anni Trenta, un uomo solo al comando non fece poi tanto male…

 

Quasi ogni giorno mi capita di fare un’esperienza non poco significativa: se in quasi tutti gli amici e colleghi schierati, come me per il Sì trovo le mie stesse perplessità, nei fautori del No nei quali mi capita di imbattermi, vedo quasi sempre titaniche, incrollabili, rabbiose certezze. E’ qualcosa che mi rattrista non poco giacché vi scorgo il segno di quella guerra civile da cui sembra che non riusciremo mai a venir fuori. Alla base di questo malcostume della mente, c’è una political culture condivisa da cattolici, post comunisti, post azionisti, libertari e fascisti vari per i quali il sapere è, soprattutto, impegno etico-politico, sicché i suoi cultori debbono contribuire a redimere il mondo dai suoi mali (diversamente identificati), le loro penne debbono tramutarsi in spade, a sostegno dei paladini delle buone cause e le calunnie, le distorsioni dei fatti, l’alzare la voce per reclutare seguaci entusiasti e fanatici vanno considerati mezzi leciti ai chierici che scendono in campo. Il modello resta sempre Tirteo che scriveva le sue elegie per animare gli Spartani in guerra! 

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