Il No populista di Salvini alla prova della Lega che (invece) governa
Da Padova a Milano, passando per Venezia. Perché Roberto Maroni (e Luca Zaia) non vogliono rompere le alleanze.
Milano. Padova, fino a sabato scorso, era il più grande comune italiano governato dalla Lega – o forse dalla Liga, quella veneta, visto che Massimo Bitonci è anche presidente del polmone veneto della Lega nord. Sabato due consiglieri di Forza Italia si sono uniti all’opposizione e lo hanno sfiduciato. Gravellona Lomellina, duemila e settecento abitanti in provincia di Pavia, è forse uno dei comuni più piccoli tra quelli governati dalla Lega. O forse non più dalla Lega, visto che il sindaco Franco Ratti, che è un leghista della prima ora, un bossiano dei tempi eroici, è stato espulso dal partito per aver pubblicamente dichiarato che al referendum costituzionale voterà Sì. In realtà, ha detto, “non sono stato cacciato, perché sarebbe stato necessario un procedimento amministrativo più complesso. Mi hanno semplicemente chiesto di restituire la tessera del partito e così ho fatto subito”. Fedeltà alle antiche liturgie del partito-clan. Massimo Bitonci, anche lui politico e amministratore di antica militanza, voterà regolarmente No. In passato è stato fiero nemico, nella Liga, di Flavio Tosi (Tosi che ora ha lasciato il partito di Matteo Salvini e invece voterà Sì). Ma Bitonci è caduto lo stesso, nonostante gli scongiuri interni a Forza Italia per non farlo cadere di Nicolò Ghedini ed Elisabetta Gardini, entrambi padovani: “Vuol dire schierarsi contro tutta la Lega e mettere in discussione le alleanze a ogni livello”, avevano detto. Che in città, sabato, ci fosse anche Stefano Parisi per una tappa del suo Megawatt è forse una coincidenza, o forse una congiura degli astri. Il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, stanato in diretta dal Foglio lo scorso venerdì, voterà Sì. Non è detto che la sua giunta cada, la Lega in Laguna non comanda, però il rischio esiste.
Situazioni differenti, ma nel cielo sopra quella che un tempo fu la Padania la tempesta astrale è eccellente. A scatenarla sono stati due fattori: Matteo Salvini e il referendum costituzionale. Per sapere quale sarà il futuro, ci vorrebbe un indovino. Di che cosa si tratti, nel caso di Matteo Salvini, è cosa nota. Ha lanciato un’Opa sulla leadership del centrodestra in base a una linea politica ben delineata, almeno a parole: via Renzi, via dall’Unione europea e dall’euro. Difesa della nazionalità – che non sono più “i liberi popoli del nord” della mitologia secessionista-federalista bossiana, ma un’italianità un po’ generica è a tendenza Fratelli d’Italia. Riferimenti: Marine Le Pen, Vladimir Putin e ora The Donald. La parola che va di moda nel salvinismo – basta non prenderla troppo alla lettera – è sovranismo. Un termine importato dal pensiero politico autonomista e indipendentista, che non ha molto a che fare con il federalismo della tradizione leghista. Riprendersi la libertà dai poteri esteri e terzi; più una visione statalista-dirigista in economia e nei settori strategici, più la retorica contro finanza e grande capitale, e la retorica contro le istituzioni sovranazionali. Su questa strada, la Lega è pronta a rompere con Berlusconi (o con Parisi, o con chi sarà) e correre da sola. Bisogna capire se su questa strada Salvini è pronto anche a rompere con qualche pezzo della sua base elettorale, e ancor più a sacrificare qualche pezzo non piccolo del potere amministrativo della Lega – un “sindacato territoriale”, veniva definito un tempo il suo sistema di governo – nelle regioni del nord. Il caso del sindaco-militante Franco Ratti di Gravellona Lomellina è ovviamente simbolico. Ma non lo è la recente perdita di alcune roccaforti come Varese, dovuta allo scollamento delle alleanze. E non lo è ad esempio la posizione di Flavio Tosi, sindaco di Verona. Che dalla Lega se n’è andato non solo per bisticci di tribù, ma soprattutto per una visione differente della prospettiva nazionale, e persino internazionale, del partito. Lui pensa che la Brexit possa essere negativa per la nostra economia, pensa che l’Italia dell’Europa non può fare a meno (dice niente l’autostrada del Brennero?), che un governo che faccia le riforme sia meglio di perdere altri due anni.
E, oggi, pensa che bocciare il referendum sia un suicidio. Come lui, la pensano molti imprenditori, non per forza piccoli, del Veneto. Che la pensano pure come Brugnaro, sulle stesse materie. E sono due sindaci di peso della regione dove la Lega è più forte. In Lombardia, il leghista Roberto Maroni sta con Salvini, sul No. Ma il suo no ha una caratura politica assai diversa, somiglia più a quello di Parisi. E’ un no che rivendica la difesa – pure con qualche forzatura della lettera – delle autonomie locali che la riforma del Titolo V fortemente rivede. “Se vincerà il Sì le Regioni verranno cancellate così come il sistema delle autonomie”, e soprattutto subirebbero un “livellamento al basso” gli standard amministrativi (Sanità e non solo) delle regioni più virtuose. Vota No per questo, ma non è interessato a buttare a mare l’alleanza di governo del centrodestra per seguire le politiche, segnatamente economiche, salviniane. Non è un caso che sabato, anziché a Firenze, Maroni fosse a Mantova, a riproporre un referendum consultivo sulle autonomie (e l’autonomia fiscale) tanto caro anche al collega Luca Zaia. Il partito dei governatori e dei sindaci leghisti non vota necessariamente Sì, ma non vota il No trumpista di Salvini. E, se dalle urne venisse fuori un clima da unità nazionale, non sarebbe scontento.
L'editoriale dell'elefantino