Matteo Renzi (foto LaPresse)

Il partito che nascerà il 5 dicembre

Claudio Cerasa

Non esiste una via d’uscita per Renzi in caso di sconfitta. A meno che…

I sondaggi pubblicati ieri da molti giornali sul referendum costituzionale sono senza appello e per quanto i sistemi di rilevazione demoscopica siano imperfetti (dettaglio non secondario) delineano un quadro chiaro e netto: il quattro dicembre vincerà il No. Immaginare un futuro di Renzi nel caso in cui il Sì non dovesse prevalere tra due settimane non è semplice e ci sarebbero mille variabili da considerare. Ma non c’è dubbio che all’indomani di una sconfitta che i sondaggi danno per scontata (e che dunque per questo probabilmente non si verificherà) emergerebbe un tema che non si potrebbe non affrontare, la cui centralità sarebbe esponenziale nel caso di una vittoria del Sì, e che suona più o meno così: a prescindere dal risultato del referendum si può ignorare il fatto che le urne del 4 dicembre contribuiranno a disegnare il perimetro di quello che non si può che definire il nuovo partito della nazione?

 

Qualora il Sì dovesse prevalere, il percorso del partito della nazione sarebbe logico e lineare e il segretario del Pd avrebbe le carte in regole per ridisegnare senza troppe difficoltà i confini del centrosinistra e avvicinarsi alle successive elezioni politiche seguendo un progetto chiaro: far confluire il partito del referendum all’interno del progetto renziano. Dovesse vincere il No, il percorso sarebbe più tortuoso e difficoltoso e spericolato ma il tema resterebbe: si può ignorare il fatto che questa campagna elettorale ha portato alla luce del sole un movimento d’opinione trasversale che persino i sondaggi meno ottimistici collocano in una forchetta che va tra il 45 e il 48 per cento? Politicamente, ovvio, una sconfitta al referendum sarebbe una mazzata micidiale per il presidente del Consiglio e da botte come queste ci si potrebbe anche non riprendere mai (vedi David Cameron). Ma per quanto possa essere complicato, il 5 dicembre Renzi si ritroverà di fronte alla possibilità di gestire un bottino comunque importante e dovrà studiare una strategia per non disperdere quel patrimonio. Ecco dunque la domanda: può mai esistere una strategia possibile per gestire quel patrimonio, e non perderlo, in caso di sconfitta al referendum?

I più ottimisti, forse un po’ ingenuamente, potrebbero dire che una sconfitta al referendum di Renzi non segnerà la fine della carriera politica del premier, ricordando magari il fatto che l’ex sindaco di Firenze ha costruito il suo percorso di successo anche attraverso una buona gestione di due sconfitte (le primarie del 2012, perse contro Bersani; la corsa alla presidenza del Consiglio nel 2013, quando Napolitano, preferì far guidare la prima grande coalizione di questa legislatura a Enrico Letta e non subito a Matteo Renzi, che all’epoca non era ancora segretario del Pd). Immaginare uno scenario ottimistico in caso di una sconfitta al referendum (che per Renzi sarebbe cataclismatica) è quasi impossibile ma esiste un percorso strettissimo, microscopico, all’interno del quale l’attuale premier potrebbe muoversi per tentare disperatamente di non disperdere il patrimonio del referendum.

La strada, anche qui, è evidente: lasciare Palazzo Chigi, restare segretario del Partito democratico, dare il via libera a un governo politico gestito da un tecnico di cui il Pd resterebbe azionista di maggioranza, anticipare il congresso del Pd e provare a vincerlo facendo leva sugli stessi equilibri che oggi governano il partito, provare a rifarsi una verginità anti establishment da una posizione più defilata, gestire da segretario le partite importanti che ci saranno il prossimo anno (le nomine alla carica delle aziende pubbliche), imporre da segretario un’agenda per la crescita in Europa (non conta molto ma nel Parlamento europeo i deputati del Pd rappresentano comunque la maggioranza del gruppo socialista) e andare a votare un secondo dopo aver riscritto la legge elettorale. Renzi avrebbe una possibilità su mille di riuscire a capitalizzare il risultato di una vittoria del No (la volatilità dell’economia italiana, ci ha ricordato ieri Bankitalia, sarebbe molto alta, e la volatilità del renzismo, in caso di vittoria del No, sarebbe altrettanto elevata) ma qualunque sarà il risultato del referendum non si potrà non fare i conti con un fenomeno importante: questa campagna elettorale ha rimescolato le carte, creando un campo trasversale tra culture diverse tra loro, e in questo senso provare a fare alle prossime politiche quello che si è tentato di fare con la riforma costituzionale sarebbe quasi doveroso. Può piacere o no, ma a prescindere da quale sarà il risultato del 5 dicembre, il referendum costituzionale mostrerà qual è il perimetro potenziale del partito della nazione.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.