Il centrodestra e il manifesto per il Sì
Cosa riscoprirà Berlusconi rileggendo il suo gran discorso del 1995, che con ventun anni di anticipo intuì quali erano i limiti del sistema istituzionale italiano.
E’ il 2 agosto del 1995. Il primo governo Berlusconi è caduto da pochi mesi (gennaio 1995). Lamberto Dini è presidente del Consiglio. Alla Camera prende la parola Silvio Berlusconi. E nello spazio di venti cartelle il capo di Forza Italia traccia le coordinate di un nuovo mondo, del mondo futuro, dell’Italia del futuro. Un paese libero dai tabù che da anni tengono in ostaggio la classe politica e una classe dirigente capace finalmente di muoversi in modo autonomo rispetto ai campioni del veto. Il discorso del 2 agosto del 1995 viene ricordato ancora oggi da molti sostenitori di Berlusconi come un passaggio decisivo nel processo di maturazione politica del Cavaliere. E rileggere quelle parole oggi, a ventun anni di distanza, è impressionante per molte ragioni.
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Con ventun anni di anticipo Berlusconi intuì quali erano i limiti del sistema istituzionale italiano. Lo fece denunciando la persistenza insostenibile di “un’Italia dei partiti, fondata sul sistema elettorale proporzionale e sulla dottrina non scritta del consociativismo, che si permetteva il lusso di immaginare un futuro che però non doveva arrivare mai”. Lo fece auspicando un giorno in cui “non dovrà esserci più spazio per il vecchio balletto dei governi che durano un’effìmera stagione, per il sequestro della decisione politica da parte di potenti apparati di partito, per una logica di rinvio dei problemi e di crisi permanente dello Stato”. Lo fece ricordando come sia complicato fare politica in Italia in presenza di “governi deboli, prigionieri di maggioranze che riescono a stare insieme solo facendo dello scambio politico e della dissoluzione della finanza pubblica la loro vera identità politica e la loro più profonda ragion d’essere”. Lo fece forte della consapevolezza che già ventun anni fa era chiaro che sarebbe stata “necessaria una riforma dell’attuale sistema bicamerale che, anche per l’eccessivo numero del parlamentari, comporta un inutile spreco di lavoro e lungaggini dei procedimenti decisionali quali nessuna moderna democrazia potrebbe e può sopportare”: una riforma che “dovrà essere nel senso della trasformazione della seconda Camera in un organo rappresentativo delle autonomie locali; sarà questo il luogo dove le competenze spettanti ai diversi livelli territoriali troveranno la prima e più importante garanzia politica e dove il principio di sussidiarietà troverà la sua protezione”. Lo fece sbeffeggiando tutti i professionisti dell’allarme democratico, perché, come è ovvio, “l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo comporta la personalizzazione della politica e contiene pericoli autoritari, essi dicono”, e nonostante “la parola d’ordine delle sinistra” sia che “si vogliono azzerare le libertà” la verità è un’altra, sosteneva il Cav.: “L’equazione tra elezione diretta del vertice dell’esecutivo e sistema autoritario è un falso”. Con queste argomentazioni Berlusconi, ventun anni fa, spiegò perché nella sua visione del mondo la riforma della Costituzione era un passo fondamentale per migliorare l’Italia e salvarla dai, testuale, “nostalgici del proporzionalismo e della consociazione”, che quando si sentono “non protetti chiedono garanzie”. “Coloro che per anni si sono alimentati al presente sistema, che ha profondamente alterato la logica della separazione dei poteri; coloro che hanno diffuso i loro metodi politico-clientelari basati sul proporzionalismo e sulle leggine di spesa – questa quota a te che sei il partito di maggioranza relativa, quest’altra quota a te che sei il principale partito dell’opposizione, quest’ulteriore quota anche a te, che pur essendo piccolo, hai un forte potere di interdizione –, tutti costoro sono insorti alla nostra proposta di riforma!”.
Il ragionamento di Berlusconi si chiudeva con un appello contro i professionisti del tatticismo politico, specializzati nel “blindare la nostra Costituzione, costruirle attorno una muraglia invalicabile, far sì che per la riforma che viene proposta occorrano maggioranze irraggiungibili”. “La nostra fedeltà ai princìpi fondamentali è assai più salda di quella di chi, per miope tatticismo politico, avendo evidentemente perduto ogni idealità e non sapendo più liberarsi da un machiavellismo fine a se stesso, blandisce il vero nemico della Costituzione come possibile alleato contro le forze autenticamente riformatrici presenti nel paese…”.
Abbiamo scelto di ripubblicare il discorso di Berlusconi non solo perché lo spirito di quell’intervento coincide con lo spirito della riforma che si voterà il 4 dicembre ma perché a ventuno anni di distanza c’è qualcosa che stona. Non torna il fatto che Berlusconi dica no a una riforma che l’Italia contemporanea ha imparato a sognare anche grazie a quel discorso del 2 agosto del 1995. Ma non torna anche il fatto che a forza di muoversi contro natura Berlusconi si ritrova in una situazione non facile. Lasciamo stare le accozzaglie e pensiamo ai contenuti. E i contenuti oggi ci dicono che le ragioni sulle quali punta il centrodestra del Cav. per dire di No alla riforma costituzionale (no alla deriva autoritaria, No al leader solo al comando, Sì al ritorno al proporzionale) sono le stesse ragioni contro cui il centrodestra di Berlusconi ha combattuto per una vita. E per questo, per quanto Berlusconi oggi provi a dire di No, siamo sicuri che sotto sotto non può che sperare che il 4 dicembre vinca il Sì, per vedere sconfitta una volta per tutte la parte meno berlusconiana e più depressiva del nostro paese: l’Italia del No. Buona rilettura, caro Cav.