Una riforma è una riforma è una riforma. Nel paese della restaurazione continua, il Sì è una liberazione
E’ dalla fine degli anni 70 che ne parliamo. Nel frattempo e’ appassita l’economia, ci sono state usurpazioni nella divisione dei poteri, i riformisti sempre nell’angolo
Voto Sì, anzitutto, contro la maledizione del “riformismo mancato”, la vera tara e il filo occulto che corrode la storia italiana dal dopoguerra e rende anomala la modernizzazione italiana. E spiega la decrescita progressiva. Potremmo partire dalla fine degli anni 50 e dalle promesse mancate del primo centrosinistra. Ma limitiamoci alla storia vissuta dalla generazione di politici che ha preceduto quella attualmente al governo. E’ dalla fine degli anni 70 che data l’impellente necessità di una riforma della governance istituzionale italiana. Il decantato modello costituzionale in vigore iniziò a mostrare allora le sue crepe d’origine, la sua arretratezza, l’esigenza di una manutenzione. Quel modello non riusciva a partorire una normale dialettica parlamentare, si impantanava in metodologie consociative, si mostrava fragile all’assalto terrorista, si impaludava nelle sue “anomalie”. E appariva, già allora, inadatto a guidare la transizione italiana da novella (e insperata) potenza industriale degli anni del boom a potenza industriale cui occorreva dare robuste dosi di stabilità e solidità istituzionale, per mantenere standing competitivo.
Insomma è dalla fine degli anni 70 che la mancanza di un funzionamento di alternanza, la fragilità della funzione di governo, il pachidermismo del bicameralismo perfetto, condizionano il normale funzionamento istituzionale. E da allora la storia italiana è storia di mancati tentativi di riforma, di promesse mancate, di finte montagne (bicamerali, commissioni, leggi elettorali, eccetera) che partoriscono veri topolini. Tutto comincia, mi si perdoni l’indulgenza al complottismo, con l’omicidio di Aldo Moro. Di recente Paolo Mieli, nel commento a uno scritto sul centenario della nascita del leader DC, ha riaperto lo squarcio sulle possibili motivazioni vere di quella tragedia. Che non ha logica alcuna nella vulgata del complotto americano. Quello che non si voleva era l'integrazione del Pci nell’area di governo non per una infantile paura dei comunisti. Ma, forse, per il suo contrario: che quella paura finisse. Il Pci nell’area di governo avrebbe segnato il suo definitivo e inevitabile distacco dall’est. La paura era che si annullasse il fattore K per esaurimento della sua anomalia: il vero asso nella manica dell’est. Noi miglioristi sostenemmo, per questo, la politica di Berlinguer fino al 1980 (poi lui la cambiò). Il compromesso storico era, lo sapevamo, una politica strampalata: divideva la sinistra e allontanava l’alternanaza alla Dc. Ma la sostenemmo perchè, a nostro avviso, integrando il Pci nell’area di governo, avrebbe accelerato il suo inevitabile cambio e reso necessaria una modernizzazione delle istituzioni. E, forse, credevamo avrebbe dato coraggio anche alle flebili innovazioni di Berlinguer. Era l’opposto preciso delle intenzioni di chi armò la mano delle Br.
Sappiamo come finì quel tentativo: la morte di Moro e il rinculo del Pci su posizioni nulliste ed estremiste. La fine del tentativo di eliminare l'anomalia. E il declino del Pci che lo porterà al tracollo dell’89. Un’alternativa allo strampalato compromesso Dc-Pci liquidato col piombo, tuttavia, c’era: la grande riforma di Craxi. Era la prospettiva più lineare, limpida, occidentale, plausibile, liberale possibile. E, temporalmente, in accordo con i tempi, le condizioni e le esigenze italiane: una grande potenza industriale che doveva modernizzare le sue istituzioni per completare la sua integrazione competitiva nel gaming dell'inizio della mondializzazione. Con confusioni intellettuali di una orribile e attempata sinistra intellettuale, una lobby ridicolmente obnubilata dal culto dell’anomalia del Pci (e poi del Pds, dei Ds, eccetera), con alterazioni della dialettica democratica, con usurpazioni nella divisione dei poteri tra magistratura e politica, con l’instaurazione dell’egemonia della “subcultura viola” giustizialista, con i surrogati da essa offerti al vecchio antagonismso della sinistra, con il takeover di questa subcultura sulla vecchia sinistra, con il demitismo e la nascita del partito di Repubblica si confezionò la restaurazione che liquidò l’opzione craxiana della grande riforma. E con essa anche l’ultima possibilità che la sinistra, insperabilmente, potesse guidare in Italia un processo di riforma istituzionale.
Dopo la storia di quegli anni verrà la cronaca dell'ultimo ventennio: una sequenza, che ha del comico, di tentativi mancati, di approcci di carta (le numerose velleitarie bicamerali, le promesse mancate del berlusconismo, l’ulivismo di governo, afasico e impotente sulla riforma delle istituzioni). La storia intera della seconda Repubblica, nei suoi versanti di destra e di sinistra, è triste e miserevole storia di riformismo mancato per ciò che riguarda istituzioni e forma di governo. Da 30 anni questo riformismo mancato ha i suoi numeri e la sua matematica: coincide con gli andamenti stagnanti o decrescenti del pil, i numeri del declino di produttività, quelli del debito e del deficit. In breve: i numeri della decrescita italiana. Come fa uno come il professor Monti (ma anche come Bersani) a non leggere questi andamenti e il link tra ritardo delle riforme istituzionali e decrescita italiana? Il miracolo è: il 4 dicembre, per la prima volta da 40 anni di riformismo mancato, una riforma si può decidere: non sperare ma… decidere. Nessun argomento ho sentito convincente, onestamente, da pragmatico riformista che potesse indurmi a pensare che, con i suoi possibili o probabili difetti, nessuna riforma sarebbe meglio di (finalmente) una riforma. Che, tralaltro, ecco il miracolo, abbiamo nelle nostre mani. Che non dobbiamo affidare alla benevolenza (sempre deludente) del destino, a una qualche promessa o appuntamento futuro (bicamerali, commissioni, costituenti ecc) di cui sono lastricati i cimiteri del riformismo italiano. Miracolosamente (diciamo così per non urtare sensibilità col nome di Matteo Renzi) il 4 dicembre, dopo 40 anni di tentativi fatti fallire, possiamo “decidere” (non delegare) una riforma consistente delle istituzioni. Insomma: possiamo sconfiggere la maledizione, il mancato riformismo, che da 40 anni blocca e fa deperire la governance italiana e le sue istituzioni generando la decrescita e il declino della nostra potenza economica. Da vecchio riformista sempre orfano di riforme, oggi ho la mia carta. Basta un Sì.