Yes, Economist is unfit to read Italy
L’arte del compromesso spiegata agli intellò in preda a delirio narcisistico
L’Italia è un paese così innamorato dei propri vizi per cui l’unico modo per fare le riforme è affidarsi a governi tecnici, come sembra credere un celebre settimanale britannico in maniera tanto spocchiosa quanto superficiale? In verità, i governi tecnici non esistono. Al massimo può esistere una politica debole o una politica forte. Con la prima, le responsabilità si annacquano e la coerenza delle scelte va a farsi friggere; le tecnostrutture tendono ad assumere compiti impropri, disperdendo anche le proprie competenze; le lobbies accedono con facilità a centri decisionali poco trasparenti; gli elettori non sanno a chi dare la colpa e il malcontento si autoalimenta. E’ questo il brodo di coltura ideale per i populismi di ogni colore. Se tutto ciò avviene la colpa non è dei populisti, come sembrano credere certe élite intellettuali che guardano dall’alto verso il basso (senza esserne abilitate) quegli imprenditori politici che cavalcano le ansie e le paure degli elettori.
La colpa, casomai, è di una politica debole e senza idee, che non riesce a placare quelle ansie e quelle paure risolvendo qualche problema. E un pezzo di colpa è anche di quelle stesse élite intellettuali che con analisi spesso autoreferenziali sono parte del problema più che della soluzione. L’unico antidoto a questo circolo vizioso è il ritorno di una politica che si assuma la responsabilità delle proprie scelte e cerchi di prendere decisioni chiare, all’interno di una visione altrettanto chiara del futuro della collettività i cui problemi è chiamata a risolvere. Se poi quelle decisioni e quella visione franeranno alla prova dei fatti: a casa e avanti il prossimo. Una politica che si assume la responsabilità delle proprie scelte, infatti, è l’unico modo per rafforzare il controllo degli elettori sugli eletti, placandone il senso di impotenza ed estraneità rispetto alle scelte collettive. Che, in Italia e nel mondo, ci sia qualcuno a cui questo ritorno della politica dia fastidio è legittimo. Un motivo in più per andare avanti. La tecnica, da sola, non può sciogliere i nodi di cui sopra. Solo la politica, intesa come ricerca di soluzioni stabili e condivise attraverso la difficile arte della costruzione del consenso sociale, può farlo. Questa è una cosa che molti intellettuali (o presunti tali) fanno fatica a capire. Perché la forma mentis richiesta per fare i due mestieri, quello del politico e quello dell’intellettuale, è molto diversa.
Lo aveva capito bene Tocqueville, quando – tirando un bilancio della sua esperienza nei due campi – concludeva che gli intellettuali che hanno avuto successo in politica non ci sono riusciti “perché erano autori illustri, ma benché lo fossero”. Perché la speculazione intellettuale “li asserve alla logica delle idee, mentre la folla non obbedisce che a quella delle passioni”. Detta così, sembra quasi la descrizione denigratoria di un intellettuale rispetto alla bassa cucina delle scelte politiche. Al contrario, è il riconoscimento dell’arte del governo come momento separato dalla scienza del governo, entrambe nobili e necessarie a patto che rispettino i confini e i ruoli l’una dell’altra. Aggiunge infatti Tocqueville: “Quanti sono stati tra noi coloro i quali, la mente obnubilata da queste tenebre sapienti, hanno visto il 1640 nel 1789 e il 1688 nel 1830, e che, sempre in ritardo di una rivoluzione, hanno voluto applicare alla seconda il trattamento della prima, simili a quei medici dotti che ben al corrente delle vecchie malattie del corpo umano, ma sempre all’oscuro del male particolare e nuovo da cui è colpito il loro paziente, non mancano di ucciderlo con erudizione”.
Quando il rigore intellettuale diventa rigidità intellettuale, quando non si riconosce l’autonomia della politica come costruzione di scelte collettive attraverso l’arte del confronto aperto e del compromesso possibile, si fanno danni oltre l’immaginabile. Da quando faccio il politico (pro tempore) mi sento rivolgere spesso la stessa domanda: come fai a stare al governo anche se vengono fatte scelte che non condividi? Questa domanda tradisce un fraintendimento di fondo: il non capire appunto che la politica è un progetto collettivo. Se stai in un progetto collettivo solo se condividi il 95 per cento di quello che viene fatto, sei probabilmente un intellettuale in preda a un delirio narcisistico. Se ti basta il 5 per cento per starci, sei un politicante a caccia di poltrone. Tra il 5 per cento e il 95 per cento ognuno mette l’asticella dove crede. E avere una professione che ami a cui tornare ti aiuta a tenerla alta. A patto di non metterla così alta da stravolgere il senso della politica. Perché la politica è mediazione tra interessi, ma è anche cambiare idea attraverso il confronto aperto con l’altro (abbandonando ogni rigida autoreferenzialità). La politica ti obbliga ad avere una visione d’insieme, mentre spesso la ricerca scientifica ti spinge a concentrarti su un problema alla volta per isolare i fattori utili alla sua comprensione. La politica è compromesso, inteso non al ribasso ma come aspirazione alla concreta costruzione di soluzioni stabili in quanto condivise.
Come ha scritto magistralmente Joseph Ratzinger: “Essere sobri e attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale. Il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo; limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale, sembra il pragmatismo dei meschini. Ma la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica”. Non c’è bisogno di chiose.
Tommaso Nannicini è sottosegretario alla presidenza del consiglio dei Ministri