Ora ai Sì serve un miracolo
La matematica è chiara: in Italia ci sono quattro poli e tre poli sono per il No. La vittoria del Sì è dunque quasi impossibile a meno che a Renzi non riescano quattro imprese per superare quota 13.334.607. Cos’è l’operazione scala mobile
E’ inutile prendersi in giro. A questo punto della corsa, la probabilità che il quattro dicembre il numero dei No alla riforma costituzionale sia superiore al numero dei Sì è quasi matematica, se si osservano per un attimo e senza ideologie le dinamiche della campagna elettorale. Fermiamoci un attimo e proviamo a mettere insieme i puntini, utilizzando qualche numero utile per orientarci nel percorso che ci separa dalla prossima domenica. In Italia, lo sappiamo tutti, in questo momento ci sono non tre ma quattro poli (Pd, Movimento 5 stelle, Forza Italia, Lega) e se tre poli e mezzo su quattro sostengono il No (5 stelle, Forza Italia, Lega, un pezzo di Pd) in teoria non ci dovrebbe essere storia, se prendiamo come punto di riferimento i voti incassati dai rispettivi partiti alle europee di due anni fa: 5.792.865 Grillo, 4.614.364 Forza Italia, 1.688.197 la Lega, 1.006.513 i Fratelli d’Italia, 1.108.457 la lista di Sinistra. In tutto siamo a 14 milioni e 210 mila voti circa.
Se questi numeri fossero confermati significherebbe che Matteo Renzi, per vincere il referendum di domenica prossima, dovrebbe ottenere circa 15 milioni di voti. Una cifra mostruosa se si considera che un partito di sinistra in Italia non ha mai superato quota 12 milioni di voti nella sua storia e se si considera che, anche a voler immaginare che il Pd di oggi abbia un consenso simile a quello record registrato alle europee, nel 2014 la somma tra i voti ottenuti dal Pd e quelli ottenuti dai partiti di centro (Area popolare) che oggi sostengono la riforma non superano quota 14 milioni: 11.203.231 il Pd, 1.202.350 Area popolare. In tutto siamo a 12 milioni e 400 mila: una cifra persino più bassa rispetto a quella messa insieme pochi mesi fa, ad aprile, dal fronte anti governativo che si è espresso con il referendum sulle trivelle (allora il No al governo si misurò con il Sì allo stop alle trivellazioni, incassando 13.334.607 voti). Dunque, come dicevamo, il punto è semplice: al Sì, per vincere il 4 dicembre, serve un’impresa, un piccolo miracolo. Il miracolo può avvenire non se Renzi smette di personalizzare la campagna elettorale (“Che il capo del governo – ha detto magnificamente ieri su questo giornale Angelo Panebianco – si giochi la testa sulla riforma più importante del suo governo mi pare ovvio. Solo nel paese degli irresponsabili il governo lancia una riforma importante e se viene bocciata si fa finta di niente”). Ma se il premier riuscirà a portare a termine quattro operazioni concrete che costituiscono lo spartiacque vero tra la possibilità di una vittoria e l’irrimediabilità di una sconfitta.
Quattro operazioni cruciali per conquistare quella fetta di elettori ancora indecisa e che messe insieme suonano più o meno così: Renzi vince il referendum se riesce a conquistare la maggioranza silenziosa del paese attraverso la costruzione (a) di un nuovo grande partito che (b) sappia far leva sulle contraddizioni degli altri partiti e che (c) possa essere percepito come l’unico antidoto alla paura del vuoto dell’instabilità e (d) alla proliferazione dei partiti anti sistema. Al momento sappiamo che nel nuovo partito di Renzi, o quanto meno nel partito del referendum, i vecchi partiti sono poco presenti (tutti i grandi partiti votano No, compresa la vecchia ditta del Pd) e sono più presenti altre realtà che coincidono con singole personalità e istituzioni trasversali. Si parte dalle associazioni che hanno espresso il sostegno al referendum – Confindustria, Coldiretti, Cna, Confcooperative, Confartigianato, Cisl, Uil Confapi, Confimi, Legacoop, Alleanza delle Cooperative, un pezzo di Ance, un pezzo di Comunione e Liberazione, il mondo delle Acli, alcuni vescovi importanti, come quello di Milano – ma si va oltre e si arriva più in là. Nel Pd, vecchia ditta a parte, è nato un movimento che non c’è, e che forse ci sarà in caso di vittoria del Sì. Ed è un movimento che mette insieme un pezzo di sinistra pragmatica che ha scelto di scommettere sul Sì al referendum non solo per archiviare per sempre la vecchia sinistra del Pd (può l’uomo che ha portato la sinistra italiana al suo minimo storico, il buon Bersani, dare lezioni su come debba essere il Pd del futuro?) ma anche per avere un nuovo campo da gioco sul quale testare le proprie ambizioni e le proprie capacità. E’ un fronte largo che parte da Nicola Zingaretti e arriva fino a Enrico Rossi e che ha una sua naturale e positiva dialettica con quei pezzi della sinistra italiana che si stanno avvicinando al progetto del Pd e che preferiscono il percorso riformista di Renzi al percorso tafazziano delle sinistre anti sistema. Politicamente è un fronte che va da Giuliano Pisapia fino a Massimo Zedda.
Culturalmente è un fronte che va da Gad Lerner fino a Michele Santoro. Lo schema renziano è quello tradizionale e che fino a oggi è stato uno schema di successo: dividere i vecchi partiti e conquistarne un pezzo. Con il Movimento 5 stelle, facendo leva più sulla parte delle riduzioni dei costi della politica che sul nuovo assetto istituzionale che emergerebbe con il Sì alla riforma, Renzi tenterà di compiere la stessa operazione, anche se non sarà semplice far rivivere al Movimento 5 stelle la stessa scena vissuta da Alessandro Di Battista qualche giorno fa a Crotone, quando l’onorevole grillino, passeggiando per un mercato comunale, si è ritrovato di fronte un ex elettore del Movimento 5 stelle che in due minuti ha rovesciato addosso al deputato del Cinque stelle tutte le contraddizioni del movimento: “Prima dicevate che c’erano troppi parlamentari, che si dovevano tagliare i costi della politica e adesso invece scopriamo che i problemi di prima per i Cinque stelle non sono più problemi… e se non votiamo il Sì, quando avviene il cambiamento?”. Delizioso.
Non sarà facile dunque spaccare in due il fronte grillino – anche se Beppe Grillo, quando dice di ragionare più con la pancia che con la testa tradisce una certa preoccupazione, la preoccupazione cioè che l’elettore grillino voti sull’oggetto della riforma e non sul soggetto della riforma. E per questo l’impresa-miracolo di Renzi il 4 dicembre può riuscire solo a condizione che il Partito del referendum possa far leva sul modello Flavio Tosi (sindaco di Verona) e sul modello Luigi Brugnaro (sindaco di Venezia). Ci sono solo due modi per declinare su Lega e Forza Italia il modello del divide et impera. Se il vecchio popolo delle partite Iva – che in Lombardia (corpo elettorale formato da 7.453.321 persone) ha già tradito la Lega per il Pd – in Veneto (corpo elettorale formato da 3.717.087 persone) seguirà più la testa che la pancia e ragionerà più pensando a cosa potrebbe migliorare economicamente con la vittoria del Sì (e più pensando a cosa si rischierebbe con la vittoria del No) è probabile che possano aumentare a dismisura i casi di ex leghisti come Flavio Tosi disposti a sostenere la riforma nonostante sia portata avanti dal leader del Pd.
Lo stesso ragionamento vale per il centrodestra dove forse è più semplice che si possano innescare meccanismi simili a quelli messi in mostra da tre sindaci di centrodestra che hanno scelto di votare Sì nonostante il No di Silvio Berlusconi (Luigi Brugnaro sindaco di Venezia, Dario De Luca sindaco di Potenza, Raffaele Russo sindaco di Pomigliano). Sia per ragioni di merito (i princìpi della riforma costituzionale di Renzi e Boschi sono simili a quelli che hanno ispirato la riforma costituzionale di Berlusconi nel 2006) sia per ragioni politiche e culturali che coincidono con la risposta a una domanda semplice: è preferibile dire di No agendo contro natura e bocciando una riforma che ha molte caratteristiche care al centrodestra solo per punire Renzi o è preferibile fottersene di Renzi (come fanno Marcello Pera, Giuliano Urbani, Fedele Confalonieri, Ennio Doris) e votare una riforma che con il Sì, oltre che realizzare alcuni vecchi progetti del centrodestra, contribuirà a far estinguere per sempre il popolo degli anti berlusconiani, che ieri si muoveva contro il Cav. e oggi si muove compatto contro Renzi?
Silvio Berlusconi sa che il suo elettorato è diviso e per questo non riesce a nascondere un velo di ambiguità quando dice No al referendum (“Votiamo No a Renzi, ma Renzi è l’unico leader”). E seppur da una posizione diversa, la stessa ambiguità, sul No al referendum, l’ha fatta registrare nelle ultime ore Umberto Bossi, vecchia volpe leghista, che in piena campagna elettorale ha bastonato Matteo Salvini, facendo notare che il leader della Lega, che uscirebbe ovviamente indebolito da una vittoria del Sì, ha dalla sua “i sondaggi ma non i voti: fa casino, ma non ha un programma e nemmeno l’esperienza”. E qui arriviamo all’ultima impresa che occorre a Renzi per sfidare la matematica e far diventare i Sì più numerosi dei No. Il primo tema è politico, il secondo è economico. Tema numero uno: riuscirà Renzi a dimostrare che il referendum è come un ballottaggio tra l’Italia che dice Sì a Grillo e l’Italia che dice No a Grillo e che dunque chiunque porti acqua all’Italia che dice Sì a Grillo porta solo acqua a Grillo e ai suoi cloni come Salvini?
Tema numero due, economia: riuscirà Renzi a dimostrare che il vuoto che si andrebbe a creare in caso di No al referendum potrebbe essere pericoloso per l’Italia e potrebbe aprire una fase di instabilità in cui gli investitori internazionali potrebbero essere tentati dall’allontanarsi da un paese incapace di riformarsi? Insomma: riuscirà Renzi a dimostrare che il problema del No non sono gli spread che si alzano ma sono le occasioni di crescita che diminuiscono per il nostro paese, come ha spiegato bene ieri su Bloomberg il chief economist di Exane Bnp Paribas, Pierre-Olivier Beffy, che giustamente ha ricordato come “in caso di vittoria del Sì il rimbalzo positivo dei mercati avrebbe entità assai maggiore rispetto agli eventuali ribassi conseguenza del No”?.
Quattro operazioni in quattro giorni per tentare il miracolo. E’ un’impresa quasi impossibile che sfida la matematica, ma se il presidente del Consiglio intende trasformare il 4 dicembre del 2016 in un giorno meno simile al 25 giugno 2006 (referendum costituzionale di Berlusconi) e più simile al referendum sulla scala mobile di Bettino Craxi (sondaggi a sfavore ribaltati negli ultimi giorni da una maggioranza invisibile che ha votato contro la posizione del Pci anche per paura delle conseguenze di una sconfitta di Craxi), la strada è questa, inutile girarci attorno: il partito della nazione, se nasce, nasce anche così.