Adesso elezioni immediate
Matteo Renzi non è un capo di partito, e dopo la delegittimazione popolare del referendum sarebbe un leader dimezzato. Meglio chiudere l’esperimento e votare subito che subire un altro strappo alla cieca
Renzi non si è presentato al Pd e al paese come un capo di partito, e non lo è mai stato. Il voto che provoca le sue dimissioni dovute e molto dignitosamente argomentate è massiccio e duramente punitivo per la sua proposta strategica e ragion politica, lo sappiamo tutti. E’ anche un voto che, sorpresina austriaca a parte, si inserisce in un ciclo di delegittimazione popolare tosta degli establishment di governo nella successione che sappiamo, dalla Brexit a Trump, con motivazioni e in circostanze diverse ma con un’unica omogenea tendenza al rifiuto incondizionato, un No rispetto al quale non conta che ci siano in campo alternative politiche accettabili. Di fronte a sommovimenti strutturali di questa ampiezza le conseguenze passano in sott’ordine. Detto da buoni perdenti, e ovviamente mi considero tale, prevale l’etica della convinzione: fa’ quel che devi, avvenga quel che può. Nel 2017, Italia a parte e previsioni nazionali rigorosamente nel cassetto, si voterà in Francia e in Germania, e solo puntando sulla speranza contro la logica della tendenza in atto, e magari contando sull’esperienza e l’assetto particolari dei due paesi leader dell’Europa, si può pensare che non vinca il Front National di Marine Le Pen a Parigi e non perda malamente la Angela Merkel a Berlino. Non è questione di destra e di sinistra, la vertigine del cambiamento quale-che-esso-sia e del sovranismo antieuropeista, combinata con le vecchie pulsioni e paure classiste rimesse a giorno dalla crisi dei redditi e delle condizioni di vita e aspettative di grandi masse di popolo, può minare il fondamento già scosso del mondo politico e istituzionale in cui viviamo. La nuova comunicazione tecnologica, con le sue ambiguità e le sue follie altrettanto minacciose quanto promettenti sono le sue potenzialità, fa il resto.
Se Renzi non è un capo di partito, e se la sua sconfitta è indice di delegittimazione popolare del processo politico da lui tentato, oltre che smentita strategica dei suoi obiettivi di sistema, non si capisce proprio da dove possa riprendere un filo di iniziativa, ora che si è dimesso da presidente del Consiglio. Il congresso del Pd come segretario eletto che chiede la riconferma sarebbe esposto alle insidie del partitismo, per un lungo e sinuoso itinerario, e di un linguaggio estraneo alla vena fattiva, svelta e ottimista dell’esperimento riformista da Renzi abbozzato e perseguito per quattro, cinque anni. Alla testa del Pd Renzi, per quanto legittima la sua base attuale di consenso, sarebbe obbligato a garantire una qualche governabilità, a sollevare gli avversari che lo hanno sconfitto con un voto di “sfiducia non costruttiva” dell’onere, congiunto all’onore della vittoria, di provvedere loro a dare seguito alla vociante coalizione che prevale nelle urne referendarie. Mesi di discussione sulla legge elettorale, in un paese che sta meglio di prima ma è comunque scosso da un nuovo vento di instabilità e di incertezza nell’economia e nelle relazioni sociali, farebbero di Renzi, inteso come leader di quella-certa-cosa-lì che abbiamo nel male e nel bene conosciuto, e di cui alcuni di noi si sono convintamente fidati, altro da sé, un capo politico dimezzato e probabilmente impotente, uno che aveva liquidato una generazione fallita e ne è stato riacciuffato in una logica, fino a prova contraria, nichilista e senza coesione e guida politico-istituzionale. A beneficiare di questo tritacarne dell’immaginazione e della visione politica sarebbero alla fine i più vocianti tra i vocianti, quelli che “non si coalizzano” e puntano al disordine e allo scacco del sistema costituzionale, i seguaci della setta più numerosa e ignorante che la storia europea abbia conosciuto fino ad ora. Forse l’unica soluzione, se non si configuri una accettabile alternativa, coerente con uno scopo limitato e dignitosa in sé, un’alternativa che nasca fuori del perimetro del renzismo, sta in elezioni immediate con la legge elettorale che c’è, corretta dalla Corte costituzionale secondo il risultato del referendum, il consultellum proporzionale e con le preferenze. Si chiuderebbe ingloriosamente un capitolo di trasformazione che va dall’esperimento Berlusconi all’esperimento Renzi, e si tornerebbe al piccolo mondo antico dei governi designati dalla chimica parlamentare pura. Almeno, però, si allontanerebbe la prospettiva di un nuovo strappo alla cieca.