Evviva il sì nel paese del no

Antonio Pascale

Forse è minoranza, forse è maggioranza. Non importa. Oggi abbiamo scoperto un gran pezzo di nazione che ha scelto follemente di rischiare sfidando la retorica della Nostalgia e una profezia di Massimo Troisi. Elogio spericolato dell’Italia del Sì

Consapevole dei rischi, consapevole anche della (imperfetta) proposta referendaria, ieri, domenica 4 dicembre, alle ore 7.50, ho votato Sì, dunque, al momento in cui scrivo ignoro cosa succederà. E tuttavia, che vinca o perda, domani desidero brindare per ringraziare l’Italia del Sì. Forse è minoranza, forse è maggioranza, ma sono lieto di incontrare, di tanto in tanto, qualcuno, certo pieno di dubbi, ma disposto al Sì, o meglio al: dài, vediamo, proviamo, lavoriamo. L’Italia del Sì che, appunto, ogni tanto appare all’orizzonte, e sulla quale nutro delle aspettative, prescinde dall’attuale contesa referendaria, anzi si nutre di una passione più ampia, e cioè, non orientata solo sulle cogenti questioni politiche che ci fanno litigare e scannare e maledire gli altri: l’Italia del Sì è per me un’Italia che impara a rischiare. Uno psichiatra e sociologo che, ricordo, leggevo da ragazzo, Erich Fromm, sosteneva che la creatività esige il coraggio di rinunciare alle certezze.

Erich Fromm sosteneva che la creatività esige il coraggio di rinunciare alle certezze

Un politico inglese, Harold Macmillan, uno strano tipo, conservatore e progressista, una vita votata a cercare la linea mediana tra liberismo e statalismo, era convinto, e a ragione, che il solo fatto di essere vivi implichi un certo rischio. Vero, gli azzardi ci infastidiscono, eppure un fatto è certo: sì, la creatività è il contrario della pigrizia; e poi sì, nella società che di giorno in giorno scopriamo mutevole e contorta, è veramente necessario imparare a rischiare. Sessantotto anni fa, nel 1948, gran parte dei nostri nonni era simile al mio, con bassa scolarizzazione. La democrazia, com’è ovvio – la nostra poi era giovane, uscita dal fascismo – poteva fondarsi e sostenersi solo sull’alfabetizzazione. Difatti mio nonno, contadino meridionale, come tanti contadini italiani ogni volta che partecipava a un incontro, chessò, con tecnici agrari che spiegavano alcune innovazioni agronomiche, si vestiva a festa. L’unico vestito della festa che aveva, lo utilizzava per eventi culturali. Convinto com’era che quella dimensione fosse sacra, si vestiva bene, per rispetto. Quel vestito ci ha portato fin qui, ma oggi non ci fornisce l’accesso a nessun ricevimento. Abbiamo il dubbio che saper leggere e scrivere – avere lauree e master – non serva più tanto, non basti. Quello che cominciamo a capire è che la pigrizia è il contrario della creatività e la democrazia ha bisogno, per poter vivere e crescere, sia di creatività sia di rischio. La vera sfida – il nuovo vestito della festa – è, per dirla in gergo tecnico, un’alfabetizzazione del rischio.

Io come italiano a volte, e sempre più spesso, mi muovo nella nebbia, cammino guardingo, sempre impaurito. La luce, assorbita dalla nebbia, distorce i contorni del mio prossimo, e allora prendo le distanze, lo scanso, evito il confronto. Oppure non esco, mi rifugio, anzi guardo la nebbia dalla finestra di casa, e con una certa soddisfazione penso che va bene così: meglio non uscire, figuriamoci rischiare, il mondo lì fuori è cattivo, pieno di ombre e animali notturni. E poi sono contraddittorio. Quando come italiano elenco i miei pregi, sottolineo sempre la creatività e la fantasia, poi a conti fatti mi scopro pigro e non così tanto creativo. Del resto, più che creativi siamo teatrali, tendiamo a prendere la scena, e infatti inventiamo la realtà di continuo, anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Altro che creatività. Il fatto è che innoviamo poco, per certi versi non innoviamo affatto. Come potrebbe essere altrimenti, ci muoviamo in una rete di sospetti, complotti, chiamiamo in causa multinazionali assassine, servaggi vari, e insomma non siamo abituati a fare squadra, né a scambiarci idee: siamo chiusi, non aperti.

La sinistra aveva smesso di ritenersi progressista, forse lo choc di Craxi, forse l’età che avanzava

Forse la colpa è di questa nebbia, non ho ben chiari i punti cardinali, i contorni. Voglio dire: quali sono i contorni del mondo? Più di trent’anni or sono, al mio primo voto, avevo punti cardinali più netti. Certo conta l’ambiente culturale di riferimento. Il mio era tutto casertano. Da una parte i neo borbonici – un occhio sorridente alla monarchia, l’altro puntato contro Garibaldi. Un ceto alto borghese, ma anche popolare, più per frustrazione che per convenienza. Comunque conservatore. Dall’altra parte c’erano i progressisti, la sinistra. Allora mi sembrava più facile, sarà il sentimentalismo della gioventù. Poi la sinistra ha smesso di ritenersi progressista, forse lo choc di Craxi, poi Berlusconi, forse l’età che avanzava, fatto sta che una netta distinzione tra destra e sinistra, tra conservatori e progressisti si è persa. Almeno io non la so vedere. Tanti intellettuali di sinistra in teoria sono progressisti, nella pratica conservatori. Prendi il territorio, i richiami alla sua sacralità (i confini, il sangue) sono tipici della destra religiosa, gli immigrati invadono i confini, oltrepassano le trincee, fermiamoli. Ma provate a chiedere a uno che si definisce di sinistra e che frequenta i mercati della Coldiretti se preferisce il prodotto locale o quello che viene da pochi chilometri di distanza. Sentirete un elogio sperticato del proprio ristretto orto, molto meglio dell’orto del vicino, e sì, vi dirà: meglio il nostro prodotto che quello che viene da fuori. Che dire poi di alcune questioni un tempo così care alla sinistra, come per esempio il garantismo? Allora la differenza tra un magistrato di destra e uno di sinistra era evidente: il primo si riteneva bravo se scopriva la colpevolezza di qualcuno, il secondo se scopriva l’innocenza di qualcuno.

La vecchia generazione si accapiglia ancora su destra e sinistra ma è solo per abitudine, vecchi rituali e parti teatrali assegnate da mandare a memoria. Le differenze prendono vita, comicamente, in scena, ma dietro le quinte c’è confusione. La colpa è di quelle certezze di cui parla Fromm che ci impediscono di essere creativi e dunque osservare l’andamento mutevole del nostro mondo, i nuovi confini: abbiamo una vecchia cartina geografica in mano, e tremiamo se ci dicono di utilizzarne una più aggiornata.

Un meraviglioso passato fatto di borghi, monumenti, prodotti tipici. Antropologia di un pezzo di paese che si rifiuta di accettare il mondo che là fuori sta cambiando

Siamo troppo legati a quel rischio zero, lo desideriamo, lo aneliamo. Non ci rendiamo conto che genera mostruosi, continuativi e irrazionali No. E in più, cosa più seria, il concetto di rischio zero elimina di fatto, e sul nascere, l’arte della politica, essenziale per il buon andamento della democrazia. Quell’arte si sa, ammette l’esistenza delle ragioni dell’altro, e prevede compromessi, realismo e imperfezioni, insomma il rischio che le proprie certezze vengano meno. The new political divide, ha scritto l’Economist qualche tempo fa (con più arguzia rispetto all’impreciso appello per il No al referendum). La distinzione tra destra e sinistra è stata soppiantata da una nuova e più marcata divisione: apertura vs chiusura. Tra i sostenitori della prima, il settimanale colloca le forze politiche favorevoli ai trattati internazionali, al commercio e all’immigrazione. Tra quelli della seconda, invece, rientrano le forze favorevoli all’isolazionismo e al nazionalismo. Se decliniamo questi due concetti troviamo le posizioni del Sì e quelle del No. Quella dose obbligatoria di creatività e di rischio necessaria per guardare il nuovo mondo e che mi piacerebbe assumere quando dico sì e quelle certezze old style che mi bloccano quando dico no. Un’occhiata veloce alla vocazione italiana, così, un repentino sguardo dall’alto, renderà evidente che il nostro è difatti il paese del No. Camminiamo guardando indietro. Il peso del passato, questo meraviglioso passato, la forza del passato, i monumenti, la bellezza che è sempre antica, le centinaia di borghi come presepi incastonati nella roccia da difendere, la fuga dalla città, la casa in campagna, il ritorno alla terra e se c’è un futuro, anche in questo caso diciamo: ha un cuore antico. Ripetiamo questo elenco come una nenia, ma siamo seri: non sono buoni propositi (anche perché sono propositi costosi) è una ninna nanna che ci culla verso il sonno. Spesso il sonno porta incubi, ci risvegliamo in preda all’ansia, dov’è il futuro?, ci chiediamo l’un con l’altro. Dove sono le politiche urbanistiche innovative? E quelle culturali? Niente. Che dire? Davanti a noi solo il passato, i nostri progenitori sono arrivati fin qua e a noi va bene così, stiamo fermi, non rischiamo. E vai con le nenie rassicuranti: il turismo è la nostra forza, lasciate perdere le fabbriche anche perché lì bisogna innovare. Non sono meglio i prodotti tipici, nostra gloria e vanto? E lasciate in pace i monumenti, i musei, non ci provate a immaginare altre formule, anche perché quelli, i musei, i borghi ecc. ecc. sono appannaggio dei custodi delle tradizioni e chissà perché della Costituzione.

 


Foto LaPresse


 

Una volta mi ritrovai a un dibattito con un critico d’arte, colto, giovane e ambizioso, combattivo, bravo e tuttavia mentre seguivo l’elenco delle sue proposte per musei e fruizioni culturali fui vittima di una visione: mi apparve davanti un enorme frigorifero, roboante: l’elettrodomestico si piazzò nel bel mezzo della sala e non riuscii più a togliermelo dagli occhi: un frigorifero roboante che conserva tutto, anche la muffa, e quella lanugine fastidiosa. Vi garantisco e vi confesso che la suddetta nenia ripetuta in tutti gli stili, mi conduce, per contrasto, verso forme di protesta dadaista e mi ritrovo a declamare slogan futuristi.

In gergo è il “bias della retrospezione rosea”. Sapere nostalgico. Tutto ciò che è passato contiene valori che vanno difesi, tutto ciò che è presente è corruzione. La modernità, soprattutto, quella corrompe di sicuro

Apertura contro chiusura. Rischio contro certezza. Dobbiamo imparare a rischiare, ci vuole un’alfabetizzazione del rischio, perché c’è un nuovo mondo, avanza, procede, marcia, mutevole, sfumato. E noi, di grazia, che facciamo? Niente, per tenere il passo guardiamo il passato. In gergo, bias della retrospezione rosea. O sapere nostalgico. Tutto ciò che è passato contiene valori che vanno difesi, tutto ciò che è presente è corruzione. La modernità soprattutto, quella corrompe di sicuro. Dire troppi sì alla modernità è rischioso, e fa perdere di vista, anzi, trasforma la nostra natura. Ci sono fiumi di inchiostro sulla suddetta questione, fior di intellettuali si sono svenati per dire la propria e hanno battuto la stessa nota. “Se vogliamo andare avanti, bisogna che piangiamo il tempo che non può tornare (…) non basta rifiutare lo sviluppo (…) grazie a Dio si può tornare indietro (…) allora si rivedranno calzoni coi rattoppi, tramonti rossi su borghi vuoti di motori – e pieni di giovani straccioni tornati da Torino e dalla Germania (…) di notte si sentiranno i grilli, forse qualche giovane tirerà fuori un mandolino”. Così, per citare una vecchia poesia di PP Pasolini (Paese sera, 1974). I grilli, i calzoni rattoppati, i giovani straccioni. Quelli che contestano le magnifiche sorti progressive e quelli che le desiderano. Dunque, apertura e chiusura, sono matrici culturali dalle quali per successive declinazioni, discende la tendenza al Sì: cioè, consapevole del mondo attorno, analizzo e rischio. E quella più vicina al sentimento del No: ovvero, non capisco il mondo attorno, non mi piace, preferivo quello passato, per adesso sto fermo e magari contesto. Una nuova divisione, sosteneva l’editoriale dell’Economist, e parlava del mondo, mica solo dell’Italia. Tuttavia un grande comico e filosofo, Massimo Troisi, molto prima dell’Economist, nel suo secondo film, “Scusate il ritardo”, aveva messo su una scenetta esplicativa del carattere di una certa Italia, quell’Italia che fatica a immaginarsi il futuro – e la fiducia che ne deriva: il professore e la macchinetta del caffè per uno.

Apertura (trattati internazionali, commercio, immigrazione) vs chiusura (isolazionismo, nazionalismo): è il “new political divide” dell’Economist. Se decliniamo i due concetti, troviamo le posizioni del Sì e quelle del No  

Chi è il vecchio professore? Una brava persona, ma molto legata al suo appartamento, alle sue cose, private e piccole, al suo orto, insomma. Se si apre, se cerca qualcuno, è solo per sfruttare il vantaggio contingente e materiale che questa apertura gli dona – nella fattispecie il professore si rivolge alla mamma di Vincenzo perché gli lava i panni sporchi e gli prepara da mangiare. Per il resto, la porta di casa è chiusa. Qualche volta, però, il professore, lascia l’appartamento, e Vincenzo, che ha le chiavi, sfrutta l’assenza dell’inquilino per portarci la sua fidanzata, Anna. Un giorno i due, dopo l’amore, si preparano un caffè e Vincenzo nota che il professore ha la macchinetta da una persona.“Questo, nientemeno, tiene ancora la macchinetta del caffè per una persona sola, mammamia del Carmine. Cioè, una tazzina (…) cioè, secondo me è il massimo della solitudine, proprio, uno che tiene la macchinetta del caffè per una persona sola.

Mammamia del Carmine, cioè, una tazzina, questo non spera mai che venga a trovarlo qualcuno, cioè così gli fa una tazza di caffè, per due, per tre”. Qui risponde Anna: “Poverino, chissà come si sente solo…”. E Massimo: “Ma infatti proprio per questo… cioè, ti senti solo e ti prendi pure la macchinetta per il caffè per una persona, vuol dire proprio che vuol rimanere solo, cioè stai solo, ci vuole la macchinetta per 12, 34, 48, a spingere la gente a dire: ma andiamoci a prendere un caffè a casa del professore”.

Il professore rappresentava, allora, una vecchia idea di Napoli, una città culturalmente incapace di cambiare, ma ecco, non sentite anche voi che questa scena ci rappresenta? Io la trovo interessante perché ci racconta sia del nuovo mondo, sia dei rischi del cambiamento, sia delle resistenze che tendenzialmente opponiamo. Chi per carattere, per scelta razionale, per analisi del mondo o altro vuole accettare la sfida che l’apertura ci impone, e dunque, nella mia personale declinazione pronuncia il Sì, ha ben presente una cosa: non può utilizzare la macchinetta del caffè da uno, cioè deve costantemente innovare, perché sia il caffè sia la macchinetta sono frutto di una collaborazione internazionale, di un’apertura, nel bene e nel male.

Anche se il prodotto è nostro, è tipico, del nostro orto, anche se quel prodotto ci rappresenta è comunque un prodotto globale. L’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) tempo fa ha realizzato una mappa che mostra i paesi coinvolti in tutto il mondo nella produzione della Nutella, la nostra Nutella – 250 mila tonnellate vendute in 75 paesi diversi. Allora: la sede di Ferrero si trova in Italia, cinque fabbriche sono in Europa, una in Nordamerica, due in Sudamerica e una in Australia. Alcune materie prime sono fornite localmente, come i barattoli o il latte, ma la maggior parte proviene da zone molto lontane tra loro: le nocciole dalla Turchia,

Anche se il prodotto è tipico, è del nostro orto, anche se ci rappresenta, è comunque un prodotto globale: sono 75 i paesi del mondo coinvolti nella produzione della Nutella. Anche le micro fabbriche oggi sono micro multinazionali

l’olio di palma dalla Malesia, il cacao dalla Nigeria, lo zucchero dal Brasile e dall’Europa, e la vanillina da una fabbrica francese in Cina. La mappa mostra anche alcuni uffici di vendita – in Giappone, Messico e Sudafrica – ma l’Ocse specifica che ce ne sono molti di più di quelli rappresentati. Non ci piace la Nutella? Ne dubito. Cambiamo genere? Le matite. Nel 2010 sono state prodotte 20 miliardi di matite, di cui la metà in Cina. Un decimo dalla Faber-Castell, industria prestigiosissima. Un prodotto tipico tedesco. Vero, lo stabilimento più antico si trova a Stein, dove il vecchio e glorioso ebanista Kaspar Castell fondò la Faber-Castell, appunto. Ma oggi la fabbrica ha 13 siti produttivi sparsi tra Brasile (quello di São Carlos è una delle più grandi fabbriche di matite al mondo, nel 2010 ne ha prodotte oltre due miliardi), India, Cina e Indonesia. La componente chiave di ogni matita è la grafite, che poi è una forma di carbonio usata nella fabbricazione delle mine. All’inizio la grafite proveniva dal Lake District, nell’Inghilterra nordoccidentale, poi già nel 1856 l’azienda rilevò una miniera di grafite in Siberia. Nel 1915 la Faber-Castell tornò a usare grafite tedesca. L’argilla, indispensabile per miscelare la grafite, è acquistata in una miniera tedesca. E il legno? Senza quello giusto non vendi matite. Il grosso dei pini viene piantato dalla stessa Faber-Castell nello stato di Mina Gerais e serve lo stabilimento brasiliano. Il legno più pregiato, invece, un’essenza di cedro, viene piantato in California, tagliato e spedito via nave a Tientsin, in Cina, qui lavorato e via verso Stein. Se ascoltate Von Faber-Castell, vi dirà che in ogni momento l’intera catena di fornitura deve essere pronta a modificare i rapporti al suo interno in funzione delle disponibilità di nuovi materiali. Anche per una società vecchia come la sua, l’importante è sperimentare nuove idee. Nemmeno è il caso di affrontare i prodotti tecnologici, basta smontarli per capire che l’assemblaggio di una semplice piastra bucata richiede una vasta collaborazione internazionale. Avete mai sentito parlare del mandrino ad aria compressa? Cioè la perforatrice che pratica i fori sulle piastre. Più fori, più informazioni. Per praticare piccoli fori, 40 micrometri, la metà del diametro di un capello, le perforatrici meccaniche non servono. Ci vogliono quelle ad aria compresse. Capite bene la quantità di ricerca e innovazione che simili macchine devono mettere in conto. Due aziende, la Westwind e la Air  Bearing producono l’80 per cento dei mandrini ad aria compressa. Queste due aziende anche se parzialmente “locali” sono parte integrante di un’estesa catena di valore, comunicano con il mondo, sono la base di un’estesa piramide. Quindi anche le micro fabbriche sono oggi micro multinazionali. Globalizzazione, insomma. Ne parliamo tanto, eppure è un fenomeno recente. Secondo i dati ISH  Global Insight, la quota di produzione mondiale svolta al di fuori dei paesi che per convenzione definiamo sviluppati  nel 1990 era appena del 24 per cento. Nel 2000, stavamo al 27 per cento, nel 2010 la quota si aggirava attorno al 41 per cento.

Certo, confini dilatati, senso di spaesamento, una specie di nebbia: forse è meglio cercare una buca dalla quale pontificare contro la nebbia. Ma a conti fatti, con un po’ di freddezza in più, ci rendiamo conto che non si può – certo, simbolicamente – desiderare una macchinetta del caffè da uno. Perché se ti prende lo sfizio di smontare la moka – mentre sorseggi in solitaria il caffè nella stanza – t’accorgi che i singoli componenti vengono da mezzo mondo, e dunque, quello stesso mondo che cerchi di tenere alla larga, arriva a casa tua. Apertura contro chiusura. Tendenza ad accettare il rischio che il nuovo mondo ci porta, contro il desiderio di voltarsi indietro per ammirare le vestigia del passato. Imparare a rischiare, perché la globalizzazione è un fenomeno che va gestito: il commercio internazionale e l’immigrazione hanno portato molte persone a perdere il lavoro, e i cambiamenti arrivati con l’apertura hanno distrutto le vite di molti. Eppure, che piaccia o non piaccia, questa è la cartina geografica del nuovo mondo.

Se una volta diradata la nebbia guardiamo, pur stupiti e spaventati, i nuovi punti cardinali, se insomma il mondo mutevole cambia di volta in volta le certezze di ieri, allora a maggior ragione bisogna fare uno sforzo verso l’apertura e allontanare la tentazione della chiusura. La tendenza all’apertura che io associo, in senso lato, al sì significa, nella sostanza, cominciare un processo di apprendimento, imparare a rischiare, e dài, pronunciamo il nostro Sì, cominciamo questa benedetta e difficile alfabetizzazione al rischio. Come si impara a rischiare? Dobbiamo imparare a pensare perché il mondo è cambiato. Non c’è solo l’Italia in questa partita. E’ il grande problema globale. J. R. Flynn, il filosofo noto per l’effetto Flynn (l’aumento del QI), ha confessato: “Ho dato l’anima in cinquant’anni di insegnamento universitario, in luoghi che vanno da Cornell e il Maryland in America, a Canterbury e Otago in Nuova Zelanda. Mi fa diventare matto il pensiero dei tanti giovani brillanti che frequentano le università con profitto, per i quali, una volta laureati, siamo costretti ad ammettere di non essere stati in grado di insegnare loro a pensare. Nonostante le numerose conferenze e i tutorial, le ore spese a dare voti e fornire feedback, non credo di aver trasmesso ai miei studenti ciò che considero più prezioso nel mio modo di vedere la vita”. Flynn si rende conto che la cultura anche se fa avanzare nei test non sempre è alla base di un corretto modo di ragionare, anzi una buona formazione culturale non garantisce l’assenza di bias:

Bearsi delle magnifiche sorti e progressive e alla fine non far nulla, mentre altri inventano mandrini ad aria compressa, matite bellissime e televisioni e macchine economiche e sostenibili. Il rischio di trovare nuovi punti cardinali

ognuno, in fondo, ha i suoi. La scuola, secondo Flynn, deve preparare al nuovo mondo, cioè alle macchinette da caffè da 24, 36 persone, per dirla alla Troisi, e proprio perché il mondo è mutevole, complicato (e non è facile capirlo, tantomeno scegliere), la scuola, dice Flynn,  non deve insegnare tutto, deve insegnare solo concetti chiave che aiutino a rischiare. I concetti chiave sono tratti dalla filosofia morale, dalla biologia evolutiva, dalla matematica, dalla sociologia. Per esempio, non si può affrontare un dibattito pubblico o privato su questioni sensibili se non si conoscono le seguenti chiavi: Universalità (1785, Kant, filosofia morale) – se si afferma un principio morale, bisogna, poi, sostenerlo con la logica; Tautologia/falsificabilità (1800, logica) – per non abusare della logica quando la usiamo per difendere in maniera fraudolenta qualcosa; Fallacia naturalistica (1903, filosofia morale) – non argomentare partendo dai fatti per arrivare ai valori; Fallacia della scuola della tolleranza (filosofia morale) – la tolleranza non sempre è una virtù suprema; Il campione casuale (1877, sociologia) – selezionare i campioni in base al caso; Effetto carisma – quando una teoria viene applicata da un carismatico innovatore o da suoi discepoli infiammati da zelo, il suo successo potrebbe essere dovuto proprio a questo fattore; Gruppo di controllo (1875, sociologia); Percentuale o proporzione (1860, matematica) – senza il concetto di percentuale e di proporzione non si riesce a valutare il rischio, ecc.

Capire il mondo, valutare il rischio, integrare e apportare correzioni e comunque dire sì all’apertura, ecco, è quello a cui vorrei brindare. Anche perché, cosa c’è dall’altra parte? La propensione alla chiusura, che poi rimanda all’isolazionismo e appunto mi ricorda tanto il vecchio e bonario professore dipinto da Massimo Troisi, pieno di fisime e rancori, concentrato sulla sua macchinetta da uno. Mio nonno indossava il vestito della festa 68 anni fa, desideroso di capirci qualcosa, ma quel vestito è vintage, serve a commentare il tempo e la democrazia che fu. Era un mondo diverso con poco meno di tre miliardi di persone. Oggi siamo a sette, la formula è 1.1.1.4, cioè un miliardo nelle Americhe, un miliardo in Europa, un miliardo in Africa e quattro in Asia. Attendiamo altri due miliardi di persone. Uno in Africa un altro in Asia. Abbiamo bisogno a no di un altro vestito per la festa?  Dobbiamo dire sì o no  a questo vestito? Sarei per sì, sì al nuovo vestito per sconfiggere questa Italia addormentata, sdraiata sui borghi millenari, figlia delle pale degli altari del passato, delle chiese medievali, del turismo e dei prodotti tipici, bonaria e mangiona, sfrenata e nostalgica, questa Italia, riuscirà a cucire un nuovo vestito? Questo paese che fa un uso sfrenato della tecnica del riflettore, illumina solo quello che dell’avversario è ridicolo e grottesco, affibbia soprannomi, li storpia. Un paese emotivo, dove molti di noi si dichiarano puliti e lindi e invece sono uguali a tutti gli altri. Un paese che non analizza mai, fa teatro, enfatizza i momenti storici, parla costantemente di punti di svolta, di punti di rottura, invoca l’apocalisse e il vaffanculo, impaurito, litigioso, ostile ai prodotti dell’innovazione, che si protegge raccontando di complotti, un paese che non affronta gli argomenti ma li esaspera, ecco questo paese è proprio l’Italia del No da cui vorrei affrancarmi. Non fosse altro perché ho 50 anni e sono un po’ sopra l’età media degli italiani (44 anni), sto dunque nella fascia alta, rischio cioè di assomigliare, fra poco, al vecchio professore di Troisi e bere il mio caffè, contestare quegli stupidi che ancora si beano delle magnifiche sorti e progressive e fare tutto questo (cioè non far nulla) mentre altri inventano mandrini ad aria compressa, matite bellissime  e televisioni e macchine economiche e sostenibili. Io sono, per censo, per frustrazione e per età, quello più suscettibile su questo versante e allora: consapevole dei rischi e delle imperfezioni vorrei ancora brindare a questo piccolo bacino del Sì, affinché diradi la nebbia, mi insegni a rischiare e insomma sconfigga le mie certezze e restituisca infine al mio sguardo un po’ di splendore.

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