Lo sfratto di Renzi lo decidano gli elettori, non i referendari. Una parabola
La soluzione al caos è in una storia craxiana del 1987, in un’Italia improvvisamente ritornata di moda
Fantastico. Italia maiala, dunque non si butta via niente, come succede con le creature suine (ce le mangiamo tutte, comprese le cotiche). Pare si vada subito verso il recupero del passato primorepubblicano e partitocratico: capolavoro del No. Appunto, non si butta via niente. Infatti tutti si domandano: che fare, dopo il referendum confermativo e le dimissioni congelate di Renzi? La soluzione la troverete in una storia del 1987 che tra poco vi racconterò. Intanto bisogna votare, perché tutti dicono, ed è vero, che dietro al No non c’è che il No, latita una quale-che-sia prospettiva di governo serio per il paese. Mentre dietro al Sì bene o male c’è quel che resta, perdente nel referendum, di un processo politico durato al governo mille giorni, e che aveva l’ambizione di durarne altri due o tremila almeno. Idee, riforme, rapporto con l’Europa, economia, lavoro, crescita, argine al populismo settario (variante italiana comica del sovranismo): tutto sta in quel 40 per cento, obiettivamente. Il 60 per cento è referendariamente possente, politicamente un nano. Un governo del 60 per cento non c’è nemmeno nella fantasia sfrenata dei più petulanti tra i vincitori, quello del 40 per cento è in carica, congelato, ma (come dire?) bisognoso di una rilegittimazione politica ed elettorale o di un licenziamento a cura del popolo elettore e del suo Parlamento bicamerale paritario.
Dunque si deve votare. Ma come si fa a votare? Sarebbe sensato, vecchia Costituzione della Repubblica parlamentare, che il governo in carica per gli affari correnti, dimissionario dopo il referendum, conduca il paese alle urne, convocate in mancanza di una maggioranza alternativa dal presidente della Repubblica. La legge elettorale legalmente c’è, si potrebbe procedere, ma politicamente è contestata. Che fare? Ecco allora il ritorno dell’identico. Eterno. Siccome abbiamo il Senato, habemus Senatum, e si torna alla Repubblica d’antan, ecco qui una parabola fondata sui fatti che spiega tutto, o quasi tutto. C’era una volta…
Siamo nel 1987. Alla fine dei mille giorni di Craxi. Craxi si dimette il 3 marzo, dopo avere (da Minoli, in tv) mandato a quel paese De Mita, sinistra Dc, che voleva per sé la posizione di primo ministro in esecuzione di un patto parasociale detto la “staffetta”. Al Quirinale c’è Francesco Cossiga, sinistra Dc, come Sergio Mattarella. Il problema è che bisogna andare a votare, se non ci sia una maggioranza seria per un governo serio. Cossiga incarica Giulio Andreotti, che dopo un paio di settimane o tre trascorse in un clima tempestoso, con l’avventuriero “inaffidabile” Craxi che ha tradito la fiducia del patto consociativo con la Dc, rinuncia. (Tenete conto che allora la parola “inaffidabile” era tremenda, come oggi tricheco, iena, serial killer, vaffanculo: perché times change). Cossiga fa la sua prima sorpresina del settennato e incarica Nilde Jotti, comunista, vedova di Togliatti, presidente della Camera molto istituzionale e seria. La Iotti rinuncia quasi subito all’esplorazione provocatoria (allora non usava mettere i comunisti al governo), tra gli applausi dei socialisti e i malumori di comunisti e dc che nella rapidità della rinuncia vedono il protocraxismo della Iotti. Craxi è ancora saldamente in sella, benché dimissionario, e candidato a reggere il governo fino alle elezioni. Il 2 aprile, a situazione incarognita sempre più, un patto tra il democristiano De Mita e il comunista Natta, benedetto da Enzo Biagi in tv, stabilisce che si vota, cazzo, e che Craxi deve fare le valigie, non può essere lui a curare gli affari correnti e a presentarsi agli elettori come il presidente del destino, che diamine. Situazione esplosiva. Cossiga ci prova con Amintore Fanfani, presidente del Senato in fondo amico di Craxi, e Fanfani addirittura rifiuta. Sempre peggio.
Allora incarica Oscar Luigi Scalfaro, ministro dell’Interno di Craxi, uno Scalfaro molto diverso da quello che si fece conoscere dopo al Quirinale, e Scalfaro è costretto anche lui a rinunciare, nonostante l’ampio mandato del presidente Cossiga “impiccababbu”. Mamma mia, e ora che succede? Craxi è ribelle, non accetta lo sfratto, vuole le elezioni da Palazzo Chigi. Ma il sistema consociativo Dc-Pci che lo ha combattuto con le unghie e con i denti non molla. Stavolta, l’ultima, Fanfani a metà aprile dopo cinquanta giorni di tormenta è obbligato ad accettare l’incarico. Per fare un governo al posto di Craxi? Ma no. Fanfani senza i socialisti non ha la maggioranza, e quindi da presidente del Senato gestirà le elezioni, poi si vedrà. Ma Craxi è inaffidabile davvero. E allora a sorpresa, per bloccare le trame di Natta e De Mita, annuncia che il Partito socialista voterà la fiducia a Fanfani, il quale se la gode. Tuttavia, controsorpresa, la Dc decide per esasperazione, con il consenso pieno dei comunisti, di votare la sfiducia a Fanfani, il suo leader istituzionalmente più prestigioso, pur di andare alle elezioni senza Craxi a Palazzo Chigi. Clamoroso. Una rottura a manetta, trame assurde: i socialisti vogliono le elezioni e votano la fiducia, la Dc voleva il governo e, non avendolo più senza i socialisti, vota contro il suo presidente incaricato. Surreale.
Da un surreale all’altro, trent’anni dopo. Renzi si dimette senza che ci sia un’alternativa di governo. Come Craxi. Perché ci sia un’alternativa dovrebbe uscire dalla politica, fare un anno sabbatico a Cupertino, lasciare il Pd nelle capaci mani di qualche bravo dc di sinistra, per esempio Franceschini, e mandare cartoline a un’Italia che aspetta la nuova legge elettorale, lavora per limare qui e lì le regole, e procede sicura verso il voto rinviato nel tempo, a parte la scadenza naturale del 2018 che s’immagina nessuno voglia eliminare, così il rottamatore manda cartoline a rottamazione rottamata. Parlamentari contenti (matura anche la pensione), Cnel e Senato felici, nomenclature di destra e di sinistra eccitate dal clima di restaurazione che gli italiani a suo tempo dovranno convalidare (con il voto di quelle mezze pippe tra i 18 e i 34 anni che hanno votato un sonante e stupido No), retroscenisti e direttori di quotidiano incantati. Wow! Però può essere che Renzi non voglia né un sabbatico (è un faticone della politica da quando è nato, a Rignano) né farsi coinvolgere in un governicchio da segretario curatore fallimentare del Pd che intanto gli si sfila di sotto. E congelato com’è, per via della solita legge di Stabilità che stavolta chiameremo legge Finanziaria come un tempo, gli viene in mente che non c’è nessun dovere di attendere la Corte costituzionale che vaglia la legge elettorale, la legge c’è, si può votare, e si vota. Punto. Quando mai l’autogoverno si sottomette al vaglio preventivo dei magistrati costituzionali, via, non facciamo ridere. Se non c’è un governo alternativo senza il Pd, cioè (ooops!) senza i socialisti, subito alle urne.
E allora? Bah, non so. Dice che con questa legge ci saranno due maggioranze diverse alla Camera e al Senato. Non si sa, ma sono le gioie referendarie del bicameralismo paritario, che volete di più dalla vita, cari vincitori? So invece che i tramatori nel Pd e negli altri giri della destra e dell’antipolitica hanno fatto le pentole ma non i coperchi. Basta guardare a quello che successe nel 1987, in un’Italia improvvisamente ritornata di moda. Se il capo del Pd fa il suo mestiere e si impunta, magari per l’ultima volta, ha dalla sua la razionalità di una richiesta di voto immediato in assenza di un governo che senza il Pd non si può fare, parlando con, pardon, Mattarella o non Mattarella. E resta a Palazzo Chigi fino a sfratto esecutivo decretato dagli elettori, non dai referendari. Provocatorio? Sì, ma anche liberatorio.