Se Renzi si dimette da Renzi
Può esistere un progetto riformista in un’Italia tornata a trasmettere le pellicole della Prima Repubblica? I grossi guai della rottamazione non riguardano questa legislatura, ma il destino di un progetto politico
A cinque giorni dalla clamorosa batosta referendaria, c’è un tema importante che in queste ore vive sottotraccia nel dibattito politico. Allontaniamo l’attenzione dalle conseguenze formali del plebiscito di domenica scorsa contro la rottamazione e proviamo a mettere per un istante a fuoco la sostanza culturale della questione, senza girarci troppo attorno. Tra le molte cose che il referendum costituzionale rappresentava, e non solo per Renzi ma anche per l’Italia, ce n’era una cruciale che il quattro dicembre è stata seppellita forse in via definitiva sotto una valanga di No e coincideva con una precisa visione del paese. La vogliamo chiamare Terza Repubblica? D’accordo, chiamiamola pure così. Ma che cos’era la Terza Repubblica? Semplice. Era un’idea forte, rivoluzionaria, che comprendeva la possibilità di costruire un’Italia del futuro attraverso la promozione di un modello che negli ultimi anni, giustamente, è stato così sintetizzato dal presidente del Consiglio uscente: l’Italia dei sindaci.
L’Italia dei sindaci era un progetto a suo modo rivoluzionario: fare leva sulla dinamicità di una nuova generazione per scardinare un sistema istituzionale molto arrugginito che ha sempre stritolato ogni genere di progetto riformista. La fine del bicameralismo perfetto, sommata all’introduzione di un sistema elettorale a doppio turno con premio di maggioranza, era la sintesi di questo progetto. Un progetto che gli antagonisti di Renzi hanno sintetizzato con la formula elettoralmente efficace della “deriva autoritaria” ma che in realtà aveva un significato preciso: portare un’iniezione di competizione in un sistema dominato da anni dalla logica perversa della consociazione.
La fine di quel modello politico – arriviamo al punto – costringe tutti a porsi alcune domande che toccano un punto preciso e riguardano anche le dimissioni di Matteo Renzi, avvolte in una bolla grigia e asfissiante di grammatica da Prima Repubblica, estremo opposto di quello che doveva essere un domani l’Italia dei sindaci. Il punto è questo: domenica sera, quando Matteo Renzi ha preso atto della sberla micidiale ricevuta al referendum costituzionale, è stato costretto a dimettersi da presidente del Consiglio o è stato costretto a dimettersi da Matteo Renzi? Non è un gioco di parole ma è la carne viva della questione e del dibattito di queste ore. Proviamo a sintetizzarla in modo più efficace: un leader politico nato per la Terza Repubblica che si ritrova improvvisamente in un universo più vicino alla Prima che alla Seconda che prospettiva di successo può avere oggi?
Qui non si parla della possibilità che nel giro di qualche mese si possa tornare a votare e che Matteo Renzi possa vincere persino le elezioni provando a trasformare in consenso politico i 13 milioni di elettori che domenica hanno votato Sì al referendum sognando la Terza Repubblica. Si parla della possibilità che in un’Italia tornata a trasmettere una politica in bianco e nero – dove l’autolesionismo ha preso il posto del riformismo, dove la pratica della delegittimazione dell’uomo-solo-al-comando è diventata un fine per raggiungere il quale ogni mezzo è giustificato, persino la rimozione delle notizie positive che arrivano da un paese fiacco ma non immobile (dati del ponte dell’Immacolata: 7 milioni di italiani in vacanza, 11,4 per cento della popolazione, + 12,9 per cento rispetto al 2015) – Matteo Renzi possa continuare a incarnare un progetto politico a colori, e a suo modo rivoluzionario, il cui processo però è stato oggettivamente interrotto da una sconfitta strategica lo scorso quattro dicembre.
E’ un problema politico di primo ordine, che può aiutare a capire meglio la difficoltà strategica con cui si ritrova a fare i conti il segretario del Pd nella situazione attuale. Lo diciamo in modo chiaro: Matteo Renzi può continuare a essere il rottamatore che ha promesso di cambiare l’Italia in un paese in cui oggi si discute di “governi istituzionali”, di “reincarichi”, di “Renzi bis”, di “governi fotocopia”, di “esecutivi tecnici”, di “governi del presidente”, di “accordi tra correnti”, in un contesto politico in cui è destinato a prevalere il modello proporzionale, con annesso governo delle minoranze e nuova egemonia dei giudici, ovvero tutto l’esatto contrario della rivoluzione a colori contenuta nell’Italia dei sindaci? E’ possibile che il presidente del Consiglio dimissionario riesca a ottenere un successo parziale andando a votare in primavera con un governo simile a una fotocopia dell’esecutivo Renzi, sempre che, ehm, “gli accordi tra le correnti” glielo consentano. Ma comunque vada a finire la girandola delle consultazioni, da qui alle prossime settimane la vera partita che dovrà giocare Renzi è più complessa della possibile formazione di un governo: è saper prendere in mano la situazione, non farsi inghiottire nel buco nero della Prima Repubblica e dimostrare che le sue dimissioni sono dimissioni da una postazione di governo e non da un progetto politico – ovvero da se stesso. Non sarà facile.