Matteo Renzo con Maria Elena Boschi (foto LaPresse)

In politica i ritiri esistono

Giuliano Ferrara

Mollare dopo un mandato se il mandato non è rinnovato. Impossibile? La lezione di Orazio e le storie di Veltroni e Rutelli aiutano a ragionare bene sulla passione ma non sulla saggezza delle scelte di Renzi e Boschi

Orazio si riteneva vecchio a quarant’anni, e scriveva epistole struggenti invece che riforme costituzionali. Ora, abbiamo tutti ridacchiato, con il ghigno degli sconfitti, su quante fesserie possa fare il popolo elettore sovrano quando evita di seguire i nostri assennati consigli, e troviamo penosi gli argomenti dei vittoriosi che non vogliono Renzi a casa dopo essersi battuti strenuamente per mandarlo come si dice a casa. Ma, appunto, un solo argomento vero resta da dirimere, di quelli che ci offre la propaganda dei vincenti nella battaglia per il ritorno alla proporzionale e alla Prima Repubblica (ci siamo, tranquilli): è l’argomento di Orazio, morto a cinquantasette anni, vecchio già a quaranta, et pour cause, e cantore dell’impero dall’angolo visuale del ritiro personale, della discrezione appartata e ironica, amara, una medietà esistenziale eroica sopravvissuta per secoli nei versi tra i più belli.

 

Una cara amica apprensiva mi gridava ieri dall’alto di una scalinata alle Belle arti, ma ora che facciamo con il governo Gentiloni, che facciamo dopo la caduta di Renzi? e io rispondevo, leggete Orazio o rileggete l’Eneide, c’è sempre altro da fare che non sia praticare il bordello imperiale della vita pubblica. Insomma Renzi, che ha quarantuno anni ed è già vecchio, ovviamente, e la Boschi, di cui l’età è un misterioso sortilegio come ha da essere per le signore, ma siamo lì, avevano annunciato il loro ritiro dal pubblico e dalla politica in caso di sconfitta al referendum, eppure.

 

Come facciamo a non mostrare un disprezzo che non proviamo per una evidente inelegante retromarcia che segnala appetito e passione ma non saggezza? Erano così sicuri delle loro ragioni, sicuri di vincere una scommessa sacrosanta, che puntarono tutta la posta, ma ora banalmente ritirano la puntata, sfidano lazzi e frizzi degli imbecilli consegnandosi però a una stanchezza o imbecillità esistenziale, quella dei révenant, coloro che ritornano. Quale forza simbolica avrebbe oggi la fine popolaresca e bugiarda, a suffragio universale diretto, della Seconda Repubblica e anche della Terza se tutti, tutti gli sconfitti si mettessero a fare altro sereni e certi del fatto loro per quanto incompiuto? Non la si può misurare, ma la si può sospettare una forza immensa. Sarebbe la cosiddetta “modernizzazione” ma fuori della caratura banale e sociologica del termine, sarebbe piuttosto una illuminazione. Ma non è così che si procede qui. Allora si pensa a Rutelli e Veltroni, pensieri poco oraziani ma molto saggi. Il primo, Francesco, ha generato la classe dirigente di ora, era stato un magnifico sindaco di Roma con la collaborazione di Gentiloni e un decente leader dei cattolici di sinistra della Margherita con la collaborazione di Renzi, è tra l’altro l’unico uomo politico in un quarto di secolo da Tangentopoli che sia stato capace di dimostrare che il solito pentito dei finanziamenti corruttivi nella politica era un bandito e rapinava lui il partito (caso Lusi).

 

Caduto in politica, Rutelli ha lasciato la strada dell’impegno pubblico diretto, ha imboccato un percorso onorevole perché meno visibile, si è occupato di cultura e beni culturali, ha collaborato con insigni archeologi e colti accademici interventisti nel loro immenso settore, gente molto diversa dai presuntuosi affabulatori faziosi come un Tomaso Montanari o un Maurizio Viroli sempre incerti tra uno studio su Bernini, uno studio su Machiavelli e una corsetta costituzionalistica con Travaglio. Il secondo, Walter, aveva mutuato da una formula di questo giornale l’idea felice della vocazione maggioritaria del Pd, che significava fare da soli in un sistema che abrogava i pasticci delle coalizioni politiche bloccate, aveva onorevolmente perso le elezioni con quel demonio di Berlusconi, che W. aveva smesso di demonizzare, poi aveva smentito sé stesso nei comportamenti ma con grande decenza, e saggia, una volta sconfitto si era ritirato nelle sue passioni, scrivere libri, spalmare di buoni sentimenti la cinematografia, trattare la tv di cui conosceva per competenza qualche segreto. Come li abbiamo ricompensati, gli oraziani d’oggidì, i saggi, gli appartati? Con una buona quota di derisione, di isolamento e perfino di disprezzo. Veltroni ha sbagliato un programma di RaiUno? Può succedere, l’auditel fa brutti scherzi, ma lo sberleffo e la cagnara su quanto è costato il suo format, che aveva il curriculum per ideare, ha chiuso la partita.

 

Quanto a Francesco Rutelli, è tollerato con il suo circolo di fedeli collaboratori e amici, impegnati nelle opere di cultura, ma niente fa sospettare una comprensione e un anticipo di simpatia per la sua decisione di far altro, non è una riserva uscita dal sistema, è un isolato su cui spettegolare se riesca un giorno o l’altro ad andare all’Unesco. Penso che loro se ne fottano, e fanno bene. Ma il loro caso serve a capire come sia possibile che politici quarantenni, dunque orazianamente vecchi, si considerino così acerbi da poter riprendersi la promessa di mollare dopo un mandato se il mandato non è rinnovato. Poi si pensa al curriculum di Di Battista, diventato autobiografia di un congiuntivo, e si è perfino contenti che nessuno diserti la partita. Ma contenti si fa per dire.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.