Il vangelo secondo De Luca
Chi è, cosa dice, cosa pensa, cosa fa, dove può arrivare. Dalle sberle alle bamboline anti casta fino alle lezioni ai moralisti d’Italia. Elogio della formidabile brutalità politica del più grande fustigatore italiano, Vincenzo De Luca. Una libidine pura
Il presidente della regione Campania, Vincenzo De Luca, è stato indagato per istigazione al voto di scambio. La procura di Napoli aveva aperto nelle settimane scorse un fascicolo senza ipotesi di reato sull’incontro tenuto da De Luca e circa 300 tra sindaci e amministratori del Partito democratico della Campania lo scorso 15 novembre. Nel corso di un monologo di circa 25 minuti, pubblicato integralmente pochi giorni dopo sul sito de “Il Fatto quotidiano”, il presidente aveva invitato gli amministratori del Pd a impegnarsi per la vittoria del Sì al referendum costituzionale del 4 dicembre.
Gli inquirenti vogliono accertare se vi siano stati inviti al clientelismo, e hanno già sentito il portavoce di De Luca, Paolo Russo.
Il presidente della regione ha definito le sue parole “battute goliardiche”, e ha respinto respinto ieri ogni accusa nel corso di un dibattito nel consiglio regionale di una mozione di sfiducia presentata dal centrodestra, che è stata bocciata.
Con la faccia spigolosa e gli occhiali cerchiati d’oro gli basterebbe una paglietta in testa per essere un ottimo caratterista del teatro leggero napoletano, che so una spalla degli immortali Nino e Carlo Taranto. Solo che Vincenzo De Luca non è di Napoli. Non è nemmeno di Salerno. Non è proprio campano. Le sue radici sono al di là dell’Irpinia, nella provincia di Potenza, nella parte di Basilicata che ha sempre guardato verso il Tirreno e la capitale del Regno delle due Sicilie: a Ruvo del Monte, mille abitanti e poco più, seicentotrenta metri sul livello del mare, fresco in estate, un freddo cane in inverno. E’ dunque un lucano, per niente amaro, che è sceso da bambino verso la piana con addosso la corazza con cui nascono gli uomini dei contrafforti. E’ una roccia. E dire che non ha carattere facile è un eufemismo. Gli avversari lo hanno via via chiamato sindaco sceriffo, podestà rosso, qualcuno con indubbio senso della nuance addirittura Pol Pot. Soprannomi abusati e frusti. La definizione più calzante di sé l’ha data lui stesso.
Con i suoi tic, la sua vanità, la brutalità legittima del bersagliere onorario, rimane una figura unica in Italia: forse è lui il vero antesignano del Partito della nazione
Campagna elettorale per le regionali del 2010, 20 marzo: centomila persone affollano il suo comizio in piazza del Plebiscito a Napoli, è la più grande manifestazione dagli anni Settanta. Dal palco si libera: “Siamo una comunità unita da una comune sensibilità, noi siamo quelli che si commuovono vedendo una donna al mercato che si conta l’euro, quelli che guardano al calvario che vivono gli handicappati, che respirano la sofferenza del mondo nelle guerre, siamo quelli che almeno una volta si sono ribellati alle ingiustizie, siamo quelli che hanno insegnato ai figli a non vergognarsi per il sudore dei padri”. Tripudio della folla, sventolio di bandiere, lancio di fiori.
Poi, tre giorni dopo, intervistato da un giornalista del Mattino, fa il civettuolo, dice che avrebbe voluto iniziare il comizio in un altro modo, avrebbe voluto gridare che gli stava scoppiando il cuore per la gioia, di fronte a una così grande dimostrazione di affetto ma poi ci avrebbe ripensato, sarebbe apparso troppo tenero: “Io devo difendere la mia immagine di carogna”. Lo dice ridendo e ammiccando ma un motto di spirito è sempre molto rivelatore.
Una carogna, dunque. Suona quasi come un’onomatopea, evoca il latrare del cane che fruga tra i rifiuti per sopravvivere, rosicchia ossi già spolpati e li difende con forza, sta sul chi vive per scongiurare le mille insidie della strada, pronto ad azzannare il polpaccio dei tanti malintenzionati che vorrebbero prenderlo a calci. Una carogna grande però, perché non ha riguardi per nessuno.
A cominciare dai 5 stelle. Raggi affacciata al balcone del Campidoglio, gli fa tenerezza come una bambolina: ma ora è una bambolina imbambolata, il Movimento è la compagnia delle bamboline in lutto. Non le dà tregua, “il sindaco di Roma ha detto in maniera così candida che abbiamo fatto errori, siamo qui per imparare. Errori? Chi si candida a governare la capitale non va a fare il doposcuola”.
Ogni venerdì alle 15 il governatore parla da Lira Tv, una web televisione di Salerno, che è stata fondata in epoca non sospetta molto prima della sua elezione a sindaco e pare sia il fiore all’occhiello dell’informazione cittadina e regionale. Seduto impettito dietro la sua scrivania di legno chiaro, inappuntabile in vestito intero e camicia bianca, parla con l’eloquio di un vecchio preside di liceo e con gesticolazione misurata. Di fianco a lui un giornalista che non si vede mai, è ripreso sempre di spalle si presume gli ponga la domanda d’avvio e poi resta in silenzio, lasciandolo parlare per un quarto d’ora senza mai interromperlo. Così le parole gli escono dritte come gli vengono, “facevano balletti gioiosi per la strada, avevano i panierini per i picnic, ora se la prendono con i poteri forti, i poteri forti avete capito, oh Gesù Giuseppe e Maria”.
Non solo Raggi. Tutto il gruppo dirigente è preso di mira, hanno messo in piedi qualcosa di demenziale e lui spera vivamente che finisca presto senza produrre troppi danni. Di Maio, Di Battista e Fico, “tre mezze pippe appollaiate sui trespoli”, Luigi Di Maio il chierichetto, Roberto Fico il moscio, Di Battista il gallo cedrone. Con Di Maio, il conterraneo, sembra che ce l’abbia in modo particolare, e visti i profili caratteriali non c’è da dubitarne, lo irride per non essersi laureato, lo chiama “reddito zero prima”, per aver fatto lo steward alla tribuna ospiti del San Paolo, l’aiuto muratore, dice che sarebbe magari diventato un abile carpentiere se si fosse applicato e non fosse stato eletto deputato con cinquantuno voti presi a Bagnoli, un’eresia per il mago della messe elettorale, cinquantuno voti ripete incredulo per ritrovarsi vicepresidente della Camera: è un miracolato. Come gli altri due. Insieme fanno tre falsi come Giuda, si baciano e si abbracciano in pubblico ma in privato si detestano, si odiano, stanno lì con i coltelli pronti a pugnalarsi alla schiena, “e che vi possano ammazzare tutti quanti”.
De Luca diffida dei sognatori, crede nella politica e nell’intesa fra partiti. Da anni dice che bisogna chiamare all’appello “uomini e donne per bene, di centro, di sinistra e di destra, perché non bastano più le etichette di partito”
L’iperbole cruenta, che è intercalare corrente in molti dialetti meridionali, un po’ come il “devi morire” che a Roma viene gridato pure allo stadio, ha provocato la reazione del sussiegoso Fatto quotidiano, house organ del Movimento che si è imposto mulinando vaffanculo contro mezzo paese. De Luca sarebbe dunque un politico e un uomo violento e pure recidivo visto che tempo addietro ha definito Peter Gomez un consumatore abusivo di ossigeno.
Effettivamente non sta bene che un ex studente di Medicina poi di Filosofia e diventato professore dileggi un giovane povero cristo che non ha voluto o potuto continuare a studiare, non sta nemmeno molto bene che metta in dubbio il moto tour di propaganda del No del povero Di Battista che non è andato a fare i bagni al mare con i soldi del partito ma i suoi cinquemila chilometri sotto le chiappe se li è messi davvero: insomma tutto questo è inelegante, non è da Commendatore di merito con placca del sacro militare ordine costantiniano di San Giorgio né da medaglia d’argento al merito della Croce rossa: nel florilegio di battute del governatore queste due sono tra le meno riuscite, infatti sanno di grillismo inconsapevole. Ma che volete, questa è l’idea che ha dello scontro politico: si picchia duro quando si può e appena si può, sopra o sotto la cintura non fa differenza. E’ anche un modo per dimostrare di non avere timori, di non volere concedere nulla alla demagogia degli altri, di non volerli inseguire ma di contrastarli, muro contro muro. Vincenzo De Luca è il solo del Partito democratico che non fa loro piedino sotto il tavolo, che non lancia strizzatine d’occhio nella loro direzione.
Il solo che ha avuto il coraggio di prendersela oltre che con lo sgangheratissimo gruppo dirigente anche con gli elettori che li hanno votati, di solito gli elettori sono tutti sacri e lisciati nel senso del pelo. Italiani e italiane che per ripulsa degli altri partiti si sarebbero fatti incantare dal rito liberatorio dei vaffa e si sono persi in quella che in psicologia viene studiata come prima fase dell’innamoramento, “l’anestesia percettiva, per cui una scorfana ti sembra una principessa, le spuntano i peli da tutte le parti e tu non li vedi nemmeno o a parti invertite lei si invaghisce di qualcuno senza accorgersi che è un perfetto imbecille”, l’accostamento è asimmetrico, più offensivo per il corpo delle donne che per il cervello degli uomini, al limite del sessismo che per i tempi che corrono appare accusa invero terribile: ma lui se ne frega, non sta lì a “faire dans la dentelle”, sente di avere conquistato un diritto signorile sulle sue terre dove la pianta a cinque stelle cresce poco, male e storta, anche se è passata da poco meno del 2 per cento di Fico alle regionali del 2010 al 17,5 di Valeria Ciarambino nel 2015, non è più un cespuglio ma resta di gran lunga pianta più bassa di quelle che contano.
Matteo Renzi con Vincenzo De Luca a Napoli per siglare il patto per la Campania nell'aprile scorso (foto LaPresse)
Non tratta con i guanti bianchi nemmeno i suoi, il Pd, il mondo della sinistra, i falsi miti. La festa nazionale del partito nel 2010 si tiene a Torino: lui, incazzato per la scarsa attenzione dimostrata a suo dire ai problemi reali del paese e soprattutto del sud, esprime “il più vivo compiacimento per l’organizzazione della splendida sagra”. Del gruppo dirigente dice che è “talmente logoro” che se anche dicesse qualcosa di chiaro nessuno starebbe ad ascoltarlo, dice che occorre un cambio radicale del gruppo dirigente e l’adozione di programmi innovativi, non ci sono altre vie, l’alternativa è la morte politica. Il cambiamento sarà realizzato più tardi, con il nome metallico di rottamazione, da uno ancora più carogna di lui: è il filo rosso che lega l’ex sindaco di Salerno all’ex sindaco di Firenze e gli fa dire gongolando che Matteo Renzi è un “deluchiano” della prima ora. Oggi incassa i dividendi: ogni volta che il premier sbarca in Campania stacca assegni, per Bagnoli, per la Terra dei fuochi, per la Napoli metropolitana o altro, uno così “me lo sposerei”.
Di sicuro non si sposerebbe con Rai 3, “la più grande fabbrica di depressione al mondo”. Né con Milena Gabanelli, reginetta dell’investigazione che, dice De Luca, compie atti di squadrismo giornalistico e mai in modo ingenuo, in buona fede ma sotto dettatura delle lobby radical chic. “Ci sono campagne di informazione che tendono a distruggere la vita di un essere umano. Che calpestano la dignità di una persona. Che distruggono le famiglie. A partire dal nulla. Questo per me è camorrismo giornalistico. E non ci sono strumenti per difendersi. Se si fa una trasmissione su Rai 3 e se viene un giornalista e mi fa un’intervista. E poi quell’intervista viene spezzettata e ridotta a dieci secondi che non significano niente questa è una forma di camorrismo”.
Da un anno governa la regione. Ha portato con sé gli uomini chiave di Salerno e applica gli stessi metodi: giunta ristrettissima, cinque donne e due uomini, le deleghe importanti le conserva per sé
La campagna regionale del 2010 l’apre a Scampia e la chiude a Casal di Principe non per parlare di camorra, cosa che dice di fare tutti i giorni, è lì per difendere la dignità di persone per bene che non meritano il marchio d’infamia: demagogia in perfetto politichese che funziona da esorcismo, libera la mente da un’ossessione e riafferma la supremazia della politica. Persino in un settore delicato come la raccolta dei rifiuti, lo spazio per la criminalità organizzata viene solo dalle insufficienze della politica, stare a parlare sempre di camorra dice De Luca è come mettere le mani in avanti, crearsi un alibi, giustificazionismo, quello “che Gramsci chiamava cadornismo, scaricare le proprie responsabilità sugli altri, agghiacciante”. Per questo non è un fan incondizionato di Roberto Saviano, ne riconosce i meriti ma anche il suo grande limite: innamorato del suo personaggio, della sua immagine, ha bisogno di inventarsi la camorra anche dove non c’è, forse ha paura di rimanere disoccupato. La serie televisiva “Gomorra” l’ha seguita con qualche sensazione di orticaria.
De Mita lo accusa di governare senza programmi: lui risponde con insolenza di avere l’impressione che non ci senta più tanto bene. E sempre De Mita lo accusa di aver fatto vincere un concorso alla moglie in una Asl senza averne i titoli: gli viene fuori una battuta alla Woody Allen, “è la mia ex moglie, se la veda direttamente con lei”.
Insomma non ha riguardo alcuno né per le glorie passate né per la saggezza che conferisce l’età: chi è avversario lo è per sempre. Intervistato dalla “Zanzara” dice che se si adottasse il criterio di valutazione della vita pubblica che c’è in America, in Italia rimarrebbero solo i bambini sotto i dieci anni e Pier Luigi Bersani. La battuta potrebbe anche essere interpretata in due modi. Uno, banale, il riconoscimento dei miasmi che ammorbano la politica nazionale e della specchiata onestà dell’ex segretario democratico. L’altro, più sottile, la denuncia di un limite personale di Bersani, la cui ingenuità e onestà-tà-tà lo farebbero sembrare un bambino di dieci anni: il moralismo è la malattia infantile del riformismo. Il che non vuole dire godere dei privilegi del satrapo, difendere la casta. Dice che bisogna avere sempre capacità autocritica anche nei momenti di successo e di vittoria, mai perdere l’umiltà, mai dimenticare chi si è e da dove si viene, dalla terra, dalla povera gente. Nulla è più efficace più di una spalmata di buoni sentimenti per mascherare uno strato di cinismo. L’attenzione ai poveri però è vera, l’amore per la cultura pure, è il grumo di comunismo italiano che attecchì nel De Luca giovane iscritto al Pci degli anni Settanta Non ha suggerimenti generali da dare sui nomi dei candidati ma valutazioni di merito sì: la padronanza della grammatica e della sintassi. La politica non può sconfinare nell’analfabetismo.
Tutta la sua carriera è un caso da manuale, la dimostrazione di quanto la realtà possa incidere nella trasformazione del pensiero e dell’azione politica. Nel Pci fu entusiasticamente ingraiano, stessa corrente di Antonio Bassolino, entrambi avversari del migliorismo di Amendola e Napolitano. Entrambi all’epoca hanno venature estremiste e ubbie movimentiste: pensano che la buona amministrazione e il buon governo siano banalmente sovrastrutturali e servano ad aiutare il capitalismo a risolvere le proprie contraddizioni mentre solo la trasformazione sociale e la costruzione della nuova società sarebbero degni oggetti della politica.
Eletto al Consiglio comunale di Salerno nel 1990 è assessore ai Lavori pubblici e vice del sindaco Vincenzo Giordano che nel 1993 viene coinvolto in Tangentopoli e costretto a dimettersi. D’acchito tocca con mano quanto sia difficile governare, l’asprezza di dover amministrare nel dedalo dei rapporti con le varie burocrazie, la soffocante complessità di leggi norme e regolamenti, del potere invasivo e arbitrario della magistratura. Scioglimento del Consiglio e nuove elezioni il 5 dicembre del 1993: De Luca a capo della lista Progressisti per Salerno fa al ballottaggio la sua prima vittima, Giuseppe Acocella e vince con il 57,8 per cento dei voti. Un exploit dopo soli tre anni passati nella giunta. Nel 1997 sarà rieletto con il 71,3 per cento, un vero record. In un territorio complicato, fatto di vicinanze, contiguità, interessi illeciti, occulti, intrecci criminali, non serve a nulla alzare le mani pulite al cielo, bisogna al contrario sporcarsele con abilità, camminare sulla corda tesa senza cadere è un’arte. I metodi del sindaco fanno discutere. Rifondazione comunista lancia le solite accuse di voto di scambio, massima ipocrisia della politica odierna, lui fa spallucce, se qualcuno ha le prove le tiri fuori. E sennò valle a trovare nella zona grigia. Giovani democratici che fanno riferimento ad Antonio Bassolino e quindi non allineati con De Luca si riuniscono in assemblea per eleggere il segretario: un gruppo di contestatori fa irruzione nella sala al grido di viva il sindaco, qualche spintone, tafferugli, la magistratura avvia l’indagine e scoprirà che erano in maggior parte dipendenti di un’azienda partecipata del comune. L’acqua calda insomma.
Delle cose minime e scivolose ovviamente il sindaco non si cura: pensa a riqualificare il centro storico, governa la città con competenza e lungimiranza, costruendo le premesse per una rinascita durevole. Anche la Napoli di Bassolino si risveglia, sono anni di fasti per la sinistra campana, i giornalisti stranieri arrivano a frotte a dare conto di una primavera fin lì impensabile. Napoli però dura poco, l’imbellita è di facciata, riguarda la zona monumentale, il lungomare, il Maschio, poco a poco la straordinaria città si incarta nel suo disordine strutturale, sepolta tra rifiuti e caos. Forse è lì a metà degli anni Novanta che comincia ad incrinarsi il sodalizio tra Bassolino e De Luca. Il quale ha capito che non si può amministrare e al tempo stesso fare teoria politica, governare e coltivare i residui ideologici della sinistra, che la città e la grande politica nazionale sono come acqua e olio, non si fondono, l’una cosa va tenuta separata dall’altra e che un sindaco deve scegliere: legarsi in maniera quasi morbosa a coloro che amministra o iscriversi ai circoli illuminati e glamour di coloro che chiacchierano. Sembra davvero di sentire Renzi con largo anticipo.
Vincenzo De Luca con Antonio Bassolino
Bassolino invece non è mai guarito dal virus contratto quando era nell’apparato comunista, vuole tenere insieme l’azione di governo e il partito nazionale, pratica amministrativa e teoria politica. Come dicono a Napoli, ha sempre voluto “mantene’ ‘o carro p’a scesa”, quindi disastro assicurato. De Luca no, il carro l’ha sostituito con un agile trolley per turiste dirette a Ibiza, giusto qualche costume e abitini buoni per ogni occasione: si agisce qui e oggi, si amministra al massimo delle proprie forze perché qui è la radice del consenso. E’ il circolo virtuoso che molti brillanti dirigenti della sinistra ancora si ostinano a non riconoscere, a non voler vedere: senza incarico elettivo non sei nessuno, agli occhi dell’elettore non esisti, non dovresti avere diritto di parola. E’ così nella politica moderna, pensate a quanto possa contare negli Stati Uniti l’opinione di un funzionario di partito che non sia anche sindaco di grande città, governatore, deputato o senatore. Ecco De Luca ha capito che il circolo virtuoso è fare in fretta e possibilmente bene, ottenere risultati, i risultati portano il consenso, il consenso rafforza il successo e se ben irrigato dura a lungo e rende duraturo il successo. Che a sua volta fa crescere l’autostima e dà alla politica forza e prestigio per fare a pezzi i cavalieri del nulla dell’ antipolitica. De Luca ha vinto tutte le elezioni cui ha partecipato, ha perso solo le regionali del 2010 al ballottaggio contro Stefano Caldoro del Pdl partito in condizioni di netto vantaggio. Conterà pure qualcosa aver fatto quattro mandati, essere sempre stato ai primissimi posti nelle classifiche nazionali di gradimento dei sindaci, un paio di volte addirittura al primo, poter dire “a Salerno mi votano pure le pietre”. Questa è la vera libidine per un politico di razza.
Non è solo per il suo particolare modo di esercitare il potere, per il disprezzo evidente che nutre per ipocriti, mosci e mammole o per personale vanità che De Luca ha vissuto come in una trance eroica, a petto in fuori, il lungo braccio di ferro che l’ha opposto al circo mediatico-giudiziario. Un susseguirsi di indagini a suo carico per fatti risalenti anche a dieci anni prima. Quando la commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi lo include nella lista dei candidati impresentabili a poche ore dal voto delle ultime regionali, cosa che per molti sarebbe stata una mazzata letale, lui non si lascia travolgere. Consapevole di non essersi mai lasciato corrompere, di incarnare da anni un’idea positiva, laica della politica che agisce nell’interesse comune e di aver costruito un rapporto speciale con gli elettori campani, regge il colpo, si batte. Vince. Nelle urne. Vince nelle aule di tribunale. Riesce pure ad aggirare la legge Severino che sospende dalla carica chi è stato eletto con condanne o procedimenti in corso. Presenta ricorso al tribunale di Napoli che sospende la sospensiva e chiede lumi alla Corte costituzionale per capire se la legge vìola il principio fondamentale della non retroattività. La risposta della Consulta è arrivata qualche settimana fa, fuori tempo massimo, dopo la sentenza d’Appello di piena assoluzione perché il fatto non sussiste. Qualcuno ha parlato di sentenza ad hoc, di salvataggio in extremis applicando il diritto partenopeo e non quello italiano: a Roma si dice che “nun ce vonno stà”.
La sfilza dei procedimenti a carico di De Luca è consultabile in rete, c’è persino una tavola sinottica che dovrebbe facilitare la lettura e dice invece quanto sia difficile governare una città, salvare posti di lavoro, trovarne di nuovi per i disoccupati, fare importanti opere pubbliche persino nominare una nuova figura di tecnico, senza violare qualcosa, senza incorrere in reati piccoli e meno piccoli e nelle relative sanzioni: è il percorso di guerra dell’amministratore locale.
Della lista non resta più nulla, tra proscioglimenti e assoluzioni, è finita in una bolla di sapone: l’impresentabile avrebbe diritto a una lettera di scuse dell’occhiuta commissione e della sua presidentessa, “la signorina Rosaria” la chiama facendo una pausa che dice tutto: ma Vincenzo De Luca è uomo di mondo e non si aspetta nulla.
Da un anno e poco più governa la regione. Ha portato con sé gli uomini chiave di Salerno, il fedelissimo Fulvio Bonavitacola, Carmelo Mastrursi detto Nello, l’uomo che nelle retrovie fa il lavoro sporco, per esempio sferrare un calcio a un giornalista petulante. E applica gli stessi metodi, giunta ristrettissima, cinque donne e due uomini, le deleghe importanti le conserva per sé. Accentratore, uomo solo al comando, decisionista, cesarista: è subito ripartita la lagna, evidentemente prendere una decisione in fretta, avere gli strumenti per imporla e farla rapidamente eseguire è un reato, una pecca. Si sa che in dieci o in cento o in diecimila si decide meglio. E’ sempre stupefacente e incomprensibile ai più l’idiosincrasia di certa sinistra nei confronti del decisionismo, le ragioni perché in democrazia li spaventi più della futile, confortevole chiacchiera che ormai non si sopporta più nemmeno in televisione.
E’ diverso da Crocetta, logorroico e fin qui inconcludente. Diverso da Emiliano, intrappolato dalla cultura giustizialista da ex magistrato. Diverso dal Masaniello De Magistris. Gli altri arringano, lui fa politica
De Luca contratta con Roma, con profitto come si è visto, utilizza a pieno i fondi europei e per aggirare la burocrazia regionale sta cucendo rapporti con i milieu intellettuali e professionali di Napoli. Lo attaccano, non solo è campione di cesarismo è anche nepotista, sistema i figli, i risultati ancora non si vedono, è solo al decimo posto nella classifica di gradimento dei governatori, galleggia nell’aurea mediocrità, tra il 5 e uno stentato 6. Salerno non fu fatta in un giorno, la Campania nemmeno. Con i suoi tic, la sua vanità, con la brutalità legittima e impavida del bersagliere onorario, rimane una figura quasi unica nel panorama nazionale e assolutamente originale al sud. Diverso da Rosario Crocetta, logorroico e fin qui inconcludente, anche lui accentratore, ha cambiato giunte come camicie ma poco ha fatto per la sua regione e dà sempre la poco gradevole impressione di essere eterodiretto dai soliti pupari che fanno e disfanno le alleanze nell’isola. Diverso da Michele Emiliano, che in Puglia coltiva ambizioni nazionali e sinistrismi, mira a innesti, a ibridi in cui sembra sottovalutare sistematicamente il pericolo genetico di forze politiche che non hanno né radici né storia: si muove nella scia di Bersani, vorrebbe fare meglio di lui come se non bastassero le figuracce già rimediate in materia, il tutto condito dalla cultura giustizialista dell’ex magistrato. Diverso anche dal sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, anche lui brutale con gli avversari ma si sta impiccando a un’idea che proprio nuova non è: emancipare la Campania e poi tutto il sud da Roma grazie a un grande movimento arancione e alla costruzione dal basso di nuove comunità. De Luca non ha mai avuto simili derive, diffida dei sognatori di una vita riuscita, crede nella politica e nell’intesa fra partiti. Da anni dice che per combattere bisogna chiamare all’appello “uomini e donne per bene, di centro, di sinistra e di destra, perché non bastano più le etichette di partito”. Se c’è un antesignano del Partito della nazione è lui.
La rottura di ogni gabbia ideologica fa di questo sopravvissuto della Prima Repubblica, ex funzionario di partito, uno dei pochi politici italiani all’americana. Feroce nella difesa del potere, legato al territorio, vicino agli elettori. Per questo ho pensato a lui quando ho visto una puntata di Boss, vecchia serie di Gus Van Sant che non ha avuto molto successo in America e racconta l’anima nera di Tom Kane, sindaco onnipotente di Chicago. Al governatore dell’Illinois, uomo inconsistente e corrotto, che va a chiedergli appoggio per la rielezione, risponde più o meno così: io ho fatto molte cose terribili in questi anni ma ho sempre saputo perché le facevo, le facevo per la mia città, ma tu putridume umano, pezzo di merda, non hai nemmeno la competenza che serve per fare del bene dal male.
Ecco credo che parole così Vincenzo De Luca, boss della Campania e magnifica carogna, potrebbe dirle molto, molto bene.
questo articolo di Lanfranco Pace è uscito nel Foglio del 24 ottobre 2016