La Rai senza testa nel paese senza governo. Possibili sviluppi
Il nodo del contendere è in fondo sempre quello: c'è chi dice che Campo dall'Orto sia troppo decisionista, e c’è chi invece sostiene sia troppo isolato e senza i veri poteri di un amministratore delegato
Milano. La Rai è senza testa perché il paese è senza governo. I saggi che conoscono gli arcana del servizio pubblico ricorrono a un brocardo ineccepibile per descrivere il momento, e anche il futuro. Poi, ovviamente, un governo c’è. Ma non è più quello del cambiamento arrembante, che s’era specchiato (anche) nella riforma della Rai-specchio del paese. Quindi le possibilità che una riforma ancora in mezzo al guado tale rimanga, ci sono. Ma il nuovo è un governo che qualcosa di Rai sa. Paolo Gentiloni è stato il ministro delle Comunicazioni che negli anni 90 voleva mandare una rete Rai e una Mediaset sul digitale. Provenienza Margherita, partito tradizionalmente forte in Rai come tutta la sinistra dc, da Nino Rizzo Nervo (anni 90), agli odierni Michele Ansaldi fino ad Antonello Giacomelli, sottosegretario di Stato con delega alle comunicazioni nel governo Renzi. Partito interno che non ha mai amato la riforma, così c’è chi scommette che ci sarà una revenge contro un maldigerito governo di Antonio Campo dall’Orto, l’uomo che dal 2015 e con mandato triennale dovrebbe trasformare l’azienda in una media company, ma senza avere tutti i poteri del caso, e ora orfano del mandato forte (sebbene intermittente) di Renzi.
Le resistenze della tecno-struttura al cambiamento sono inemendabili, la vecchia burocrazia si mischia alle nuove regole su appalti, anticorruzione “infungibilità”. Poi ci sono le resistenze di cui non è elegante dire, ma tutti parlano: i più incazzati con il governo sono quelli del partito dei 240 mila euro: i dirigenti vecchi e nuovi che con il tetto agli emolumenti apicali ci hanno rimesso. Poi ci sono le resistenze di sistema. Oggi Carlo Verdelli, direttore editoriale per l’offerta informativa, presenta finalmente al cda un piano editoriale per l’informazione nato già morto – basato sull’idea di accorpare le testate, ma con una logica diversa dal pure defunto piano Gubitosi, e inviso a chi il precedente piano aveva condiviso – oggetto di infinite polemiche. Infine c’è la questione della Concessione del servizio pubblico, che scade il 31 gennaio. La conferma non è in dubbio, ma prima del referendum Giacomelli aveva fatto intendere, in una riunione con tutti gli operatori televisivi, un possibile ribasso delle quote pubblicitarie a favore del mercato, e il governo ha inoltre tagliato il canone del 10 per cento. Tanto è bastato per provocare ansia nei sindacati.
Ma sono fatti accaduti prima del 4 dicembre, quando appunto la Rai aveva una testa, per riprendere il brocardo dei saggi. Insomma la Rai di questo scorcio di amministrazione ancora da compiere, e in un periodo di turbolenza politica, resta in mezzo al guado di una riforma da completare. E soprattutto con un futuro industriale incerto. Il nodo del contendere è in fondo sempre quello, c’è una Rai dei partiti che insiste nel sostenere che CDO sia troppo decisionista, e c’è chi invece sostiene sia troppo isolato e senza i veri poteri di un amministratore delegato. E c’è l’eterno ritornello sulle posizioni che nel nuovo scenario potrebbero saltare. Ma è più probabile che si tratti dei soliti rumori di guerra che si fanno sentire in Rai, quando la battaglia è altrove. Perché poi ci sono alcuni fatti. I ruoli dirigenziali sono pressoché tutti stati cambiati a governo Renzi imperante, il vecchio “partito Rai” non è più in sella. Tranne Giancarlo Leone, direttore del coordinamento editoriale dei palinsesti, che però potrebbe avere la responsabilità su Sanremo. Una Rai di quieto vivere, al momento, non infastidisce nessuno. Qualche voce esperta suggerisce che, a livello editoriale, al massimo si assisterà a un classico “allargamento del pluralismo interno”: un po’ di spazio a chi ne aveva perso nella lunga campagna referendaria. Gentiloni si terrà alla larga da tutto questo. Poi si vedrà.