Trappola per Renzi
Il Cav., Mattarella, Franceschini, il proporzionale. Come si muove il partito che vuole votare nel 2018
Roma. Il partito del non voto era già maggioranza relativa in Parlamento, ma da qualche ora è probabilmente maggioranza assoluta, cioè da quando anche tra i Cinque stelle, per effetto dell’incertezza romana, di fronte all’ipotesi di una crisi in Campidoglio (che succede se Virginia Raggi dovesse essere indagata, come pare sarà?), si sono d’un tratto affievolite le urla: al voto al voto. Martedì la commissione Affari costituzionali della Camera ha rinviato il tavolo sulla riforma della legge elettorale a dopo la sentenza della Corte costituzionale, e con i voti di tutti, anche del M5s, e la sola contrarietà della Lega, partito dentro il quale, tuttavia, in realtà nessuno freme davvero per votare: “Non siamo pronti. Non ci sono alleanze, non si capisce niente”, sussurrano dalle parti di Roberto Maroni. E allora è rimasto solo Matteo Renzi a ripetere che “riforma o non riforma bisogna andare alle urne entro giugno”, lui che sempre di più si guarda intorno con occhi sospettosi, guardinghi: non gli sono piaciute le foto, e le chiacchiere, tra Sergio Mattarella e Berlusconi.
Il Cavaliere, ammiccante, ha accarezzato per il verso giusto le inclinazioni piuttosto continuiste del presidente della Repubblica: non c’è fretta, ha detto, anzi, ha aggiunto, esagerando: “Bisogna sedersi attorno a un tavolo, con molta calma”. E poi, ieri: “Io guardo al sistemo tedesco e alla Grosse Koalition”, dunque proporzionale. E d’un tratto – sarà solo tattica? – a Renzi è forse venuto meno l’alleato più sospirato, cioè il Cavaliere, l’uomo a cui concedere una riforma elettorale gradita in cambio delle urne. Berlusconi si muove infatti con piedi di felpa, un occhio a Mediaset e uno alla politica, e adesso suona lo spartito che Gianni Letta gli ha messo davanti agli occhi, quell’intrico di fili e di nodi, come il rovescio di un ricamo, che mette in relazione tra loro Dario Franceschini, la correntona degli ex democristiani del Pd che non muoiono dalla voglia di votare, e il Quirinale, tutta una sofistica di rapporti all’interno dei quali il destino di Renzi non è precisamente una priorità.
“Si vota nel 2018, vedrete”, dice un altro democristiano, Lorenzo Cesa, esprimendo l’ottimismo di un auspicio, sì, ma anche interpretando – da democristiano – quei segnali, quei non detti, quelle allusioni e quei sussurri tra depositari di un medesimo codice, che sembrano ritornare da un fondo antichissimo: dalla Prima Repubblica proporzionalista, e dominata, non a caso, proprio dalla Dc. E allora Berlusconi cerca l’amicizia del governo Gentiloni (“è per bene e leale. Funziona più di Renzi”), ma potrebbe essere tentato di far piccola vendetta per gli sgarbi subiti da Renzi. Mentre Franceschini cerca un accordo con Renzi sulla composizione delle liste, ma nel mondo grigio e proporzionalista, che sembra piacere ormai a tutti, potrebbe anche ritenere sacrificabile il leader carismatico e veloce. Così Renzi sembra incastrarsi in un gioco che non è mai stato il suo, condotto secondo regole antiche: contrattazione, baratto, scambio, palude. Quasi una trappola.