Non c'è più un taxi per Palazzo Chigi
Mauro spinge con malizia Renzi verso un’abiura del renzismo. Ma il leader Pd ha solo una chance per non trasformarsi in Bersani: fare il contrario e costruire un partito a sua immagine e somiglianza. I rischi di votare subito
Non c’è niente di meno popolare, forse, ma allo stesso tempo, oggi, non c’è nulla di più centrale. Per una strana combinazione della storia, a poco più di un mese dalla vittoria del No al referendum costituzionale, succede che quegli odiati, detestati, disprezzati, denigrati e snobbati strumenti della mediazione politica chiamati “partiti” sono tornati a essere, magicamente, il cuore della democrazia italiana. La nuova centralità dei partiti è una conseguenza quasi naturale del No al referendum di dicembre. E in un “nuovo” mondo in cui gli esecutivi sono destinati ancora a lungo ad avere una vita breve, in cui i presidenti del Consiglio sono destinati ancora a lungo ad avere pochi poteri, in cui le maggioranze di governo sono destinate a essere sempre meno solide grazie a leggi elettorali che si occuperanno sempre di più della rappresentatività (proporzionale) e sempre meno che della governabilità (maggioritario), sarà inevitabile che nei prossimi mesi il centro decisionale della vita politica del nostro paese coinciderà sempre di più con l’universo dei partiti. Alla luce di tutto questo, comprensibilmente vi è un notevole interesse per ciò che tenterà di fare Matteo Renzi con il partito che guida ormai dal 2013.
Il congresso sarà a novembre, come è noto, ma da qui a quella data il segretario del Partito democratico ha due strade possibili per tentare di fare quello che ha promesso (vagamente) nell’intervista rilasciata a Repubblica qualche giorno fa. La questione è semplice: cosa fare con ciò che resta a Renzi, ovvero il Pd? La prima strada è quella che sembra avere in testa l’ex premier: dare una veloce sverniciata al taxi, far finta di non aver avuto un incidente e arrivare rapidamente alle elezioni senza cambiare nulla della direzione di marcia. La seconda strada è invece quella più ambiziosa e prevede un altro percorso: prendere tempo per ricostruire la macchina del partito, studiare una nuova direzione che serva a rilanciare con nuove coordinate il proprio progetto politico, non compiere inversioni a U o pericolose svolte a sinistra e andare a votare senza fretta evitando di mettersi contro i tre quarti del proprio partito (compreso il partito che più sta a cuore a Renzi: quello dei sindaci).
La lunga intervista rilasciata a Repubblica dimostra che Renzi sa cosa deve fare (ricostruire il partito) ma non sa ancora come farlo e non sa ancora neppure con quali tempi realizzarlo (non c’è fretta). Rimandare a dopo le elezioni la costruzione del partito e far precipitare il governo entro pochi mesi potrebbe essere una tentazione anche per una questione di calcolo: votando subito, il segretario del Pd avrebbe a disposizione un potere sulle liste, derivato da una vittoria plebiscitaria alle primarie del 2013, che difficilmente potrebbe avere alla fine del prossimo congresso, e la spinta a voler ricostruire il Pd dopo le elezioni anticipate potrebbe spiegarsi anche alla luce di questo ragionamento.
Il ragionamento, come è evidente, è però pericoloso per una serie di questioni chiare. Per potersi avvicinare alle elezioni senza correre il rischio di ripetere il disastro di Bersani del 2013 (e per di più con una legge elettorale probabilmente priva di premio di maggioranza) a Renzi non basta evocare genericamente (come fatto nell’intervista a Rep.) il bottino potenziale dei tredici milioni di voti incassati il 4 dicembre 2016 e non basta (che dio ce ne scampi) seguire il consiglio del suo intervistatore (Ezio Mauro) che ha provato in tutti i modi a portare il segretario del Pd verso l’abiura del renzismo (semmai, il renzismo, serve rilanciarlo all’ennesima potenza). Serve molto di più, diciamo. Serve non rottamare il renzismo, provando a fare quello che non si è riuscito a fare durante il referendum (il centrodestra lo dividi solo a colpi di apertura del mercato e alleggerimento della pressione fiscale, il Movimento 5 stelle lo dividi mostrando i limiti della falsa utopia grillina, non impossessandoti della grammatica anti casta). Serve rendersi conto che l’innovazione politica non può essere confinata in una magnifica convention organizzata solo una volta all’anno a Firenze (la Leopolda).
Serve rendersi conto che mai come oggi prendere tempo non significa perdere tempo (meglio il 2018). Serve creare un partito che abbia l’ambizione non solo di cambiare i premier d’Italia ma anche di cambiare l’Italia. Serve ricordare che circondarsi di persone che sappiano rielaborare un nuovo programma politico e non solo eseguirlo (caminetti no grazie) è il cuore di un organismo che può essere qualcosa di diverso di un semplice taxi per arrivare a Palazzo Chigi. Anche perché, nella nuova epoca apertasi dopo il referendum, guidare un partito, per il capo di un partito, potrebbe essere il suo vero e unico destino. E in un’epoca in cui l’algebra delle alleanze conterà più del carisma delle leadership, Renzi sa bene che il segretario di un partito grande come il Pd (e che stando ai quattrini incassati grazie alle donazioni del due per mille gode di un’apertura di credito niente male con gli elettori: 6,4 milioni incassati nel 2016, 6,8 milioni incassati nel 2015) ha le carte in regola per riportare il suo partito al governo, sì, ma ha poche possibilità di tornarci direttamente, a Palazzo Chigi. E precipitarsi al voto senza una nuova storia da raccontare e un nuovo partito da collaudare forse non è il modo migliore per giocarsi quelle carte.