La benemerita dei rancori
Altro che “nei secoli fedeli”. Il processo sulla fantomatica Trattativa ha trascinato i carabinieri in una guerra fratricida fatta di dossier, mascariamenti, rigurgiti di odio
Altro che nei secoli fedeli. E’ una guerra fratricida quella che si consuma all’interno dell’Arma dei carabinieri. Sul campo restano le macerie dello sputtanamento, diventato il pilastro che regge il processo sulla trattativa Stato-mafia. E’ legittimo sgranare gli occhi di fronte all’ennesimo testimone, non l’ultimo dei graduati ma un ex comandante provinciale di Palermo, con pieni poteri operativi, che racconta di avere passato un decennio fa informazioni alla polizia dopo che alcuni suoi colleghi gli avrebbero impedito di arrestare Bernardo Provenzano.
Si fa fatica a credere che un drappello di traditori sia riuscito a indossare la divisa da carabiniere. Per carità, le mele marce sono ovunque. La perfezione non appartiene agli uomini, ma la concentrazione in questo caso si farebbe patologica. Il punto è che leggendo i resoconti del processo sulla trattativa Stato-mafia, in corso a Palermo, pare che per una lunga stagione “sporco e cattivo” siano stati requisiti necessari per accedere alla Benemerita. Non passa udienza, infatti, senza che non emerga la faida che si consuma fra i militari.
I ricordi fuori tempo massimo dei pentiti a rate popolano i verbali da decenni. La faccenda si complica se tardivi o addirittura omissivi diventano pure i racconti degli ufficiali che salgono sul banco dei testimoni. Il processo si riempie di “chiacchiere” e “discorsi da spiaggia”, come li definisce il generale Nicolò Gebbia, l’ultimo a essere stato citato dai pm davanti alla Corte d’assise che giudica mafiosi e politici per il presunto scellerato patto a cavallo delle stragi di mafia. “Discorsi da spiaggia” che nella solennità dell’aula bunker del carcere Ucciardone, quella del maxiprocesso, diventano strali contro altri carabinieri. Alcuni, come spesso accade, non avranno diritto di replica. Sono morti. L’Arma ne esce con le ossa rotte. Il presidente Alfredo Montalto, a cui di certo non si può rimproverare di non lasciare spazio alle iniziative di accusa e difesa, fa fatica a contenere i debordanti ricordi di Gebbia che a un certo punto tira in ballo pure Carlo Alberto Dalla Chiesa. In un “discorso da spiaggia” Mario Sateriale, anche lui un tempo comandante provinciale dei carabinieri di Palermo, “dopo che aveva arrestato un autore del sequestro Campisi, siccome parlava male del colonnello Russo, legato ai cugini Salvo, mi disse che Subranni, Guazzelli e Russo erano intoccabili, erano legati al cuore del generale Dalla Chiesa”.
Il processo sovverte la gerarchia delle emozioni. Cento giorni dopo il suo arrivo a Palermo i mafiosi massacrarono il prefetto Dalla Chiesa dentro una A 112 bianca. Al volante c’era la moglie Emanuela Setti Carraro, di trent’anni più giovane del generale che tentò di proteggerla con un abbraccio dalla pioggia di fuoco. Aveva deciso, lei piemontese, di seguire fino all’estremo sacrificio il suo uomo in terra siciliana. Nelle montagne russe emozionali si passa dall’abbraccio di Dalla Chiesa al tutti contro tutti dei giorni nostri.
In verità il generale in pensione Gebbia si è auto invitato. A metà settembre, folgorato dai ricordi, ha scritto una lettera al pubblico ministero Antonino Di Matteo, che del processo sulla Trattativa è la memoria storica. Voleva essere sentito – detto, fatto – per consegnare ai magistrati un appunto di due paginette che risaliva a una dozzina di anni fa. Per anni è rimasto in silenzio. Fin quando, ascoltando le testimonianze del processo sulle frequenze di Radio Radicale, si è svegliato dal torpore della pensione, rendendosi conto che poteva raccontare vicende utili alle indagini. Si è cucito addosso un copione già letto. Ecco un altro carabiniere che avrebbe potuto arrestare Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro e qualcuno glielo avrebbe impedito.
A Di Matteo e al procuratore aggiunto Teresa Principato, che ancora per una manciata di giorni – il suo incarico sta per scadere – coordina la caccia al latitante di Castelvetrano, Gebbia ha raccontato di avere consegnato, poco prima di trasferirsi a Venezia, gli appunti al generale Gennaro Niglio allora comandante della legione siciliana dei carabinieri, morto in un incidente stradale assieme al suo autista, il 9 maggio del 2004 mentre tornava a Palermo da Caltanissetta. Erano indicazioni provenienti da fonti confidenziali, anche su alcuni personaggi che avrebbero fatto parte della rete di connivenze di Matteo Messina Denaro. Nessun volto nuovo, ma gente su cui già in passato si è indagato senza approdare a nulla di concreto. Qualche spunto viene ora approfondito, ma chi bracca l’imprendibile padrino trapanese non si attende chissà quale svolta.
Ben altro peso, invece, assumono le parole di Gebbia agli occhi di chi rappresenta l’accusa al processo sulla Trattativa. I pm non hanno perso tempo per inserire il suo nome nella lista dei testimoni. Le parole di Gebbia diventano tassello dell’architettura accusatoria. Ricordi e dichiarazioni de relato – della serie ho saputo da qualcuno che aveva saputo da qualcun altro – assurgono a conferma delle nefandezze che vengono contestate agli imputati. Il testimone diventa chiave per l’autorevolezza della divisa che indossa. Specie se è la divisa di altri che si sporca, mentre la sua resta candida.
Nel tritacarne dei ricordi finiscono nomi su nomi. Per primo quello di Antonio Subranni, già comandante del Ros, uno degli imputati del processo Trattativa, sul quale Gebbia fornisce un assist rassicurante all’accusa. Racconta di avere saputo, o meglio che l’allora brigadiere Carmelo Canale gli riferì le parole pronunciate dall’esattore di Salemi, Nino Salvo, in caserma, a Marsala, dove era stato interrogato alla fine degli anni Ottanta per una storia di armi: “Noi abbiamo, disse Nino Salvo, due grandissimi amici in due fronti contrapposti il colonnello Subranni e Tano Badalamenti”.
Lo stesso Subranni – Gebbia dice di averlo saputo da un altro carabiniere – era presente alla telefonata durante la quale Nino Salvo chiese a Giulio Andreotti – “dandogli del tu” – di fare ottenere a don Tano, capomafia di Cinisi, “un permesso per la provincia di Trapani, era al soggiorno obbligato a Sassuolo, e Andreotti gli avrebbe detto che non si poteva fare. Nino Salvo gli avrebbe chiuso il telefono in faccia. Ricostruzioni de relato che alimentano ombre e sospetti, utili a tenere a galla il processo. Chiacchiere, mai confluite in documenti investigativi ufficiali, che serviranno probabilmente a ingrossare la lista delle persone da citare in una spirale infinita e nel tentativo di puntellare una ricostruzione che scricchiola.
Nella sua progressione cronologica i ricordi di Gebbia arrivano fino al 2002-2003 e diventano misteriosi. Era stato lui a chiedere al generale Carlo Gualdi, che allora comandava la legione siciliana dei carabinieri, di riportarlo da Sarajevo nell’Isola perché “le porterò Provenzano su un piatto d’argento”. E così, una volta giunto al Comando provinciale dei carabinieri di Palermo, Gebbia convocò il comandante del Nucleo operativo, Gianmarco Sottili, l’ufficiale su cui ormai da anni si concentrano i mascariamenti. Sottili, però, gli avrebbe allargato le braccia. Dovevano farsi da parte. Il procuratore di Palermo Pietro Grasso disse che la ricerca toccava a un reparto della Squadra mobile e per i carabinieri al Ros”. E così Gebbia si rivolse alla concorrenza: “… dopo avere saputo che anche il Ros aveva cestinato le mie idee, me ne andai dal capo della squadra mobile Cucchiara, il quale prese da me l’appunto con queste due piste e mi disse che le avrebbe battuto con solerzia…”.
A completare il quadro dei ricordi, sollecitati dalle domande del procuratore aggiunto Vittorio Teresi, c’è il misterioso incontro “in via Libertà” con “quell’informatore che sapeva che Matteo Messina Denaro era stato spostato su un fuoristrada nella provincia di Bagheria. A mia firma feci un’informativa al dottore Massimo Russo che era il magistrato che coordinava la cattura di Messina Denaro”.
E siamo al dicembre 2003 quando Gebbia, allora colpito da una pleurite, ottiene il trasferimento a Venezia. Prima di partire, però, mostrò l’appunto di due paginette, quello consegnato in Procura, a Gennaro Niglio allora comandante dei carabinieri in Sicilia. Niglio, che sarebbe morto nel maggio del 2004 in un incidente stradale, non potrà mai confermare se davvero disse al generale che sull’appunto stavano indagando i carabinieri del Ros, “la Gestapo”.
Il cerchio si è chiuso. Tutte le strade maleodoranti riconducono al Reparto operativo speciale. Quello del generale Mario Mori, per intenderci, che per una presunta mancata cattura di Provenzano è già stato processato e assolto. Lo scorso settembre Gebbia si è ricordato di possedere gli appunti. Nei dodici anni che hanno preceduto la consegna ai magistrati di Palermo il generale, che pure ha ricoperto incarichi di vertice nell’Arma, compresi importanti operazioni internazionali, ha scelto di rimanere attendista, addirittura “omissivo” come lui stesso si definisce rispondendo alle difese. Una sfilza di domande che fanno vacillare la sua attendibilità. Cosa fece, gli chiede l’avvocato Basilio Milio, quando seppe da Canale che l’imputato Antonio Subranni era in mano ai cugini Salvo? Indagò, scrisse delle informative? “Sempre oralmente, non ho messo per iscritto nulla… sono omissivo in questo senso…”, ammette Gebbia che dall’alto del suo ruolo avrebbe avuto ampi margini di manovra . Ne parlò almeno con i suoi superiori? Per giustificare il suo silenzio il generale risponde con un interrogativo: “Gli dovevo raccontare di queste chiacchiere nel momento in cui Nino e Ignazio Salvo erano padroni di Palermo e probabilmente anche di molti dei miei superiori?”. Nella carriera del carabiniere c’è anche un’altra occasione sprecata. Un ventennio fa poteva andare in Procura a raccontare della telefonata fra Salvo e Andreotti, quando il più potente dei politici era finito sotto processo: “Non lo feci. L’ho sempre raccontata a tutti, magistrati compresi, in situazione conviviali. Nessuno sembrava interessato a tutto ciò”.
Ed è a questo punto che il racconto si popola di ombre e sospetti: “Perché uno con il mio profilo modesto è stato mandato in Iraq a fare il capo di stato maggiore? Forse perché mi potevano sparare da un momento all’altro con i razzi…”. I rancori personali acquisiscono peso nel passaggio processuale. Il dibattimento sulla Trattativa è diventata la vetrina del livore. Vi ha già esposto i suoi ricordi, ad esempio, il colonnello Massimo Giraudo, un tempo alla guida del reparto anti eversione del Ros, citato dai pm per descrivere le presunte trame nere di un altro imputato, Mario Mori. L’obiettivo è costruire una criminalizzazione ex post del generale, scandagliando nel suo passato e nelle sue vecchie frequentazioni. Non importa che Giraudo dell’imputato avesse già parlato nell’altro processo dal quale Mori è uscito indenne in primo e secondo grado. Allora toccò a Sergio De Caprio, il capitano Ultimo che ammanettò Totò Riina, smontarne le accuse: “Quello che dici è falso”. Giraudo ha timbrato il cartellino anche al processo Trattativa. Dopo che Mori è già stato assolto tre volte, bisogna battere altre piste e i pm si muovono tra terrorismo nero, massoneria e servizi deviati.
Il cartellino lo ha timbrato pure Saverio Masi che nella guerra fratricida occupa la prima linea. Il maresciallo, capo scorta del pm Di Matteo, inciampato in una condanna definitiva per avere tentato di non pagare una multa facendo carte false, ce l’ha a morte con Gianmarco Sottili. Poteva catturare Provenzano e l’allora capitano del Reparto operativo glielo avrebbe impedito. La stessa cosa, ma con Matteo Messina Denaro, sarebbe accaduta a un altro maresciallo, Salvatore Fiducia. Diverso era il latitante da catturare, lo stesso il superiore che si sarebbe messo di traverso. E cioè Sottili che perse le staffe dopo avere ascoltato le parole pronunciate da Masi e Fiducia in una conferenza stampa convocata a Roma. Era “quasi ridicolo oggi sentire dire, sia pure da personaggi discutibili, che avremmo coperto la latitanza dello stesso boss del quale, secondo la Procura, abbiamo accelerato la cattura. Nell’ambito di uno splendido nucleo di 180 uomini, coraggiosi e capaci, si tratta pur sempre di scorie che hanno ritenuto di poter svolgere la lotta a Cosa nostra a chiacchiere o riciclando qualche notizia rimasticata da far confluire in qualche relazione di servizio per potersi ritagliare uno spazio per fare i comodi propri mentre i loro colleghi si impegnavano per conseguire successi concreti per i cittadini e lo stato”. E anche Sottili, attuale dirigente della legione carabinieri Sardegna, proprio come Masi e Fiducia, è finito sotto accusa per diffamazione.
Le denunce reciproche sono l’amara conferma del tutti contro tutti che lacera la Benemerita. Eppure è stata la stessa Procura di Palermo a sostenere, chiedendo l’archiviazione, che nulla c’è oltre le parole di Masi e Fiducia. Nulla è stato trovato per sostenere che gli ufficiali da loro accusati avessero favorito i mafiosi. Deleghe su deleghe per indagare e concludere che sono solo chiacchiere. Non contribuiscono alla verità. La allontanano. In compenso, però, disorientano.