Calise e Orsina ci spiegano che problema ha Renzi quando dice “sud”
Il curioso paradosso di un grande disintermediatore rimasto finora impigliato nelle leadership locali
Roma. Il Mezzogiorno si prepara al congresso del Pd e alle elezioni politiche (ma la successione cronologica dipenderà dalle prossime settimane; intanto vediamo cosa decide la Consulta il 24 gennaio sull’Italicum). C’è grande agitazione nel partito dei governatori del Sud – dove abbondano le macroleadership – con cui Matteo Renzi da sempre deve convivere. E’ il curioso paradosso di un grande disintermediatore rimasto finora impigliato nelle leadership locali. Vincenzo De Luca, presidente della Regione Campania, è irrequieto; due giorni fa ha lanciato da Afragola il movimento Campania Libera, che si presenterà “in tutti gli appuntamenti amministrativi che ci saranno nei territori in cui ci radichiamo”. C’è chi lo legge come una sfida alla leadership di Matteo Renzi (Corriere della Sera di ieri), anche se il governatore ha precisato, in pieno spirito deluchiano, con una nota dal titolo “dalla post-verità alla pre-idiozia”, che si tratta solo di “gossip”: “Da venti anni contrasto l’idiozia dei partiti personali”. Eppure, il manifesto politico lanciato da De Luca l’altra sera pare proprio una sfida al Pd: “Sono migliaia le persone che non si riconoscono nelle formazioni politiche ufficiali ma cercano un modo per impegnarsi. Campania Libera è un contenitore per chi vuole combattere la politica politicante delle liturgie dei partiti e di chi se ne fotte della gente”, ha detto l’ex sindaco di Salerno. Michele Emiliano pare sul punto di duellare con Renzi per la segreteria, mentre intanto cinguetta con Roberto Speranza, che si è già candidato contro il leader in carica.
Gli altri presidenti di Regione, da Marcello Pittella (Basilicata) a Mario Oliverio (Calabria), sono meno iperattivi dal punto di vista mediatico, ma fanno parte del Partito dei Governatori del Mezzogiorno che rappresenta, a seconda dei punti di vista, un ostacolo o un’opportunità per il partito renziano. “Intanto però – dice al Foglio il politologo Mauro Calise – il Pd renziano ancora non lo abbiamo visto. Dovrebbe nascere con il Renzi atto secondo, perché diciamo che nella sua prima stagione l’ex premier non ha lavorato granché sul partito. Da questo punto di vista si può parlare di un elettorato renziano, molto meno di partito renziano. Ed è il grande punto interrogativo di questa fase. Adesso siamo all’anno zero, per Renzi e il centrosinistra, e un problema effettivamente c’è. Nel senso che sicuramente, negli ultimi anni, in questo Pd così disintegrato nei rapporti fra centro e periferie, i governatori sono cresciuti. Si sono riaffacciati, ciascuno con uno stile diverso. Però non è che la vicenda di Chiamparino in Piemonte sia meno importante o quella di Enrico Rossi meno significativa. Ma prima di essere un problema per Renzi, c’è un problema per il sistema italiano, acuito dalla sconfitta referendaria, ed è il peso del regionalismo”.
Durante la campagna elettorale, Renzi aveva cercato un’intesa con il presidente della Regione Campania, poi però ha detto di aver sbagliato a puntare sul “notabilato”. Cioè, evidentemente, su De Luca e tutto il mondo che il governatore rappresenta. Servono facce nuove, insomma, ha detto Renzi. “Ma non c’è un partito delle facce nuove contro De Luca. E sa perché? Perché non ci sono facce nuove. Qui c’è un problema di rifondazione del partito, soprattutto nel Mezzogiorno, dove la crisi del partito è grave in un territorio che si è politicamente frantumato, perché noi purtroppo lo Stato ce l’abbiamo solo in cartolina”, dice Calise. Renzi dunque “dovrà convivere con i governatori. Sia con De Luca che con Emiliano, perché questi governatori impersonano una macroleadership e se il segretario del Pd dovesse scendere al livello immediatamente successivo si troverebbe solo in un vespaio. Non gli conviene sfasciare tutto, specie con il poco tempo che ha a disposizione da qui alle elezioni”.
Lo storico Giovanni Orsina vede un percorso accidentato per Renzi. “Anche perché – dice Orsina al Foglio – bisogna capire se Renzi è sempre lo stesso; se sta cambiando o ha cambiato pelle. A me sembra, detto con medio affetto, che non abbia molto chiaro che cosa stia accadendo. Lo abbiamo capito bene leggendo l’intervista a Repubblica domenica scorsa. È anche comprensibile, intendiamoci. Ma il Renzi originario, rispetto a questi governatori, oscillava fra lo schiacciare e annettere, o il comprare. O, quindi, cercava di desertificare qulaunque cosa, oppure cercava un accordo con i governatori evitando che questi diventassero una sfida politica. Però quel modello di disintermediazione – dal centro della Nazione parlo direttamente con gli elettori – è fallito. Ora bisognerà capire come Renzi rientrerà in campo e se rispetto a questo fallimento ha imparato qualcosa e come cercherà di relazionarsi con i presidenti di Regione”. Il punto è proprio questo: il rapporto fra il centro e la periferia. Vale per lo Stato, come per i partiti.
Calise ha analizzato a lungo il problema del centrosinistra nel Mezzogiorno. “La chiave dell’autodafé – o autodistruzione – del Pd sta nel fatto che, nel tentativo di sfuggire all’ascesa del macroleader, si è infilato nel cul-de-sac del micronotabilato”, scrive il politologo in Fuorigioco (Laterza). Nel corso degli anni “mentre la scena ufficiale era occupata dallo scontro tra Direzione collegiale e leadership personalizzata, nelle retrovie andava avanti un processo di frammentazione interna che non ha precedenti nella storia democristiana e, tantomeno, comunista”. Renzi voleva essere, appunto, un disintermediatore anche al Sud, ma invece si ritrova con un partito in mano ai capibastone. Alcuni di questi gli sono stati leali, come De Luca, altri a fase alterne, come Emiliano, che da primo fan alla Leopolda oggi è diventato un suo feroce avversario. La risposta potrebbe essere in quelle “facce nuove”, un ritorno alle origini per il renzismo, quello delle prime Leopolde, quando a guidare il movimento renziano c’erano soprattutto amministratori locali più o meno giovani.