Una camicia di forza invisibile
Basta parlare della durata delle ferie e dell’età pensionabile. La riforma della giustizia penale inizia con la separazione e la specializzazione delle carriere
I media riferiscono in questi giorni che dopo ampio dibattito l’Associazione nazionale magistrati ha deciso di protestare disertando, sabato prossimo, l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2017 e che, conclusa la pausa natalizia, il governo in carica potrebbe finalmente far calendarizzare la riforma del processo penale di cui alla legge delega di quasi tre anni fa. Riforma malauguratamente timida, sia chiaro, del tutto priva di abiti epistemologici ancorati alla realtà e limitata ai soliti annosi problemi domestici di contorno, da anni ferma all’orizzonte e, a ben vedere, non solo inadeguata ma già superata da eventi che, quasi in un panta rei accelerato, proliferano e si rincorrono sotto gli occhi di tutti.
Problemi di ordinarissima amministrazione, per esempio il periodo di permanenza minima dei magistrati nello stesso ufficio (che da quattro anni vorrebbero si riportasse a tre) oppure l’età del pensionamento o la durata delle ferie, i termini antistallo (art. 415 bis c.p.p.) pena l’avocazione. Basti pensare che quello ritenuto da tutti il problema più importante e spinoso non si riferisce alle separazione delle carriere che le Camere Penali – e non da sole – invocano da decenni, e nemmeno alla esiziale lentezza di un rito accusatorio smaccatamente tradito. Ma neanche alla vorace tirannide delle interminabili indagini preliminari (che secondo il codice dovrebbero essere brevi e servire solo a decidere se archiviare o meno) spesso sostenute solo da consenso sociale più o meno mediatizzato, né alle nomine che continuano a essere fatte a pacchetti da un imperterrito Csm secondo le tradizionali alchimie correntizie. Non v’è traccia nemmeno del surreale diritto del pm di impugnare le sentenze di assoluzione, né ai gustosi ma massacranti bignè di prima pagina confezionati al di fuori di qualsiasi previsione di legge, e così via… le criticità del sistema giustizia sono troppe per un articolo di giornale.
Il problema più importante e più spinoso della riforma – quello che peraltro pare ne sia divenuto il fulcro e abbia determinato suoi numerosi rinvii – si riferisce nientepopodimeno che all’antico polveroso tema dei termini di prescrizione, tema per niente complesso anzi quisquilia in quanto per la sua soluzione basterebbe davvero un briciolo di avvedutezza per fare una scelta di campo giusta. Mentre il campo è diviso tra quelli che ritengono che dovrebbe essere messo a riposo il pm che non riesce a ottenere un giudizio definitivo sulla tua responsabilità senza farti incanutire per invecchiamento e fotterti la vita, e il campo di quelli che, invece, se ne fregano che si allunghino i tempi del calvario purché il bradiprocedimento possa, calvario o non calvario, arrivare comunque in porto.
Il paese ha bisogno non dei soliti pannicelli caldi ma di una svolta radicale e ristrutturante. In anni di transizione epocale come quelli che stiamo vivendo, una svolta che consenta di essere pronti ad affrontare tutti i problemi appostati dietro l’angolo. Sarebbe magnifico se almeno questa volta i nostri governanti non si facessero cogliere impreparati e, senza dover confidare nell’abnegazione dei magistrati e nella capacità di sopportazione dei cittadini, riuscissero a governare gli eventi senza ricorrere ancora una volta a scalcinate improvvisazioni emergenziali.
Come prima cosa dovrebbero chiedersi se è vero o no che oggi il mondo è in continuo divenire. Che ogni giorno cambia qualcosa nel suo profondo. Dovrebbero chiedersi se è vero o no che la società liquida preconizzata da Bauman si è da tempo inverata nella globalizzazione, in quella condizione di incontrollata e forse incontrollabile interdipendenza socioeconomica e tecnoculturale. Con forbice sociale sempre più larga, individualismo competitivo fino al cinismo, assenza di qualsiasi punto di riferimento etico o di tradizione, ubi consistam o weltanshauung valori sconosciuti annegati nell’imperante emergenza, viviamo in un magma ribollente di disgregati tornaconti personali. E in caso di risposta affermativa i nostri governanti dovrebbero ancora chiedersi se è azzardato prevedere che, siccome da sempre i mutamenti di strutture e sovrastrutture devono procedere di conserva, pena il cortocircuito, gli apparati istituzionali domestici non potranno fare a meno di tararsi con il resto del mondo, prima o dopo, sui sottostanti fermenti e contesti sociali. Ecco perché da tempo si ritiene che la nostra giustizia potrebbe essere destinata a perdere il suo dna domestico e che ci si debba premunire per tempo con riforme organiche anziché tentare di oliare meccanismi rugginosi e obsoleti. Con una svolta che tenga conto di quanto, con la globalizzazione anche tecnologica, le esigenze della giustizia penale stiano ormai realisticamente convergendo verso un modello giudiziario unico e internazionalizzato – che già fa capolino, per intenderci, nell’Eurojust e nelle proposte di procure sempre più sovranazionali, nel Tribunale penale internazionale e negli assetti investigativi a vocazione planetaria.
Ecco perché non pare seriamente pensabile poter affrontare le nuove realtà con un obsoleto sistema giustizia cucito addosso a una società che non esiste più, con procedure calibrate sulla stanzialità e sui rinvii di anni e sull’attesa, con magistrati non specializzati nel giudicare o nel dirigere le indagini in quanto tutti accomunati e operanti, controllore giudice e controllato pm, in una generica e svogliata e indifferenziata carriera. Ecco, il primo passo per allinearsi al resto del mondo in maniera organica non può che essere la separazione delle carriere, tra quella di chi propone e quella di chi deve decidere.
Nell’incombenza di una schiacciante cultura di polizia tecno-informatica e di concentrazioni economiche brade, di ora in ora più invasive, solo il concreto e tempestivo governo della legge da parte di una magistratura efficiente e al passo tecnologico può preservare la sfera di autonomia personale in una società liberale.
Non è supposizione ma realtà: la popolazione mondiale dagli 800 milioni circa del 1800 è passata ai quasi 7 miliardi di oggi, e pare destinata a superare i 9 miliardi tra trent’anni. Il che vuol dire sovraffollamento e “criticità diffuse”, con sempre più angusti spazi fisici e giuridici per l’individuo. A tal proposito: molti “scettici blu” ritengono che i cambiamenti climatici in corso siano non di causa antropica ma solo gli ultimi di una lunga serie nella storia del pianeta. Sarà, ma i gas serra – condannati all’aumento di pari passo con la pur giusta estensione del modello tecnologico occidentale (automobile, frigoriferi etc.etc. ) a popolazioni per ora escluse – al di là delle parole sono realtà concretamente misurabile nella sua espansione e contenibile con appropriati controlli e sanzioni.
Non è supposizione ma fatto che oggi pressoché ogni persona del pianeta potrebbe essere minuziosamente e continuamente osservata e controllata. Un pianeta globalizzato e – mi si passi la raffigurazione – in camicia di forza. Di certo non occorreva il recente scandalo dei fratelli Occhionero per capire che, al pari di Dodo Mauritius, anche la privacy personale è ormai da tempo irrimediabilmente estinta, restando esigibile – forse - solo il divieto di utilizzo di dati a scopo personale.
Siamo tutti controllabili, per via non solo delle intercettazioni e della videosorveglianza ogni giorno più diffusa, non solo per il web e i socialnetwork, ma anche, ed è questo il dato preoccupante, per via di infiniti marchingegni sempre più diffusi e sofisticati, cybercrime fatto da assatanati ascolti remotizzati chissà dove, di trojan, malware, ransomware, bigdata zeppi di incroci di database ma spesso anche di qualsiasi ciarpame e marciume.
Imperversano attentati terroristici barbari ed efferati, contro la quotidianità e ovunque. Ma il pianeta è economicamente e finanziariamente globalizzato, ormai irreversibilmente e a dispetto dei penosi tentativi politici di deglobalizzare con muri fili spinati e sanzioni. Per non parlare della criminalità organizzata, ormai prevalentemente sovranazionale. Sempre di più le disuguaglianze socioeconomiche (è azzardato ritenerle quantomeno concausa degli irrefrenabili flussi migratori in corso da anni?) sono macroscopiche, dicono che circa l’1 per cento della popolazione mondiale continui a essere padrone di tutte le cose ricche e belle e che il resto del mondo si accontenti di qualche briciola. Non so se sia esatto e chi/come abbia conteggiato, resta il fatto stranoto da decenni che un quarto della gente boccheggia di colesterolo e tre quarti soffre di denutrizione, che ogni giorno migliaia di bambini muoiono di fame e incuria, che gli sguardi dei profughi sono sempre drammaticamente seri e sgomenti – sarà per paura, radici alle spalle e l’ ignoto avanti a sé? Sarà perché avrebbero preferito restare in patria? Sarà che fame o guerra fa lo stesso al cospetto della mortale disperazione? – come quelli dei condannati al patibolo o alle camere a gas. Il sacro istinto di sopravvivenza non riconosce ragioni mentre l’eventuale accoglienza prima o dopo arriva al colmo. Occorrono tempi infiniti per aiutarli a far tornare abitabili i loro paesi con una seria cooperazione allo sviluppo, alla quale però nessuno dà concretamente il via, perché darlo significherebbe rinunciare ai privilegi e, quel che più conta, penalizzare i mercanti del mercato Far West compresi quelli di armi ossia di morte, avvoltoi che attizzano e organizzano e sfruttano.
E’ un fatto che in codesto magma le persone dabbene hanno paura, e che sempre più appaiono urgere esigenze internazionali di sicurezza tanto pressanti da rendere purtroppo trascurabili le garanzie per l’individuo persona, perfino quelle fondamentali. Potrebbe essere diversamente di fronte a violenze e attentati pressoché quotidiani, di fronte alle infinite vittime, assolutamente inermi, di criminali senza scrupoli e fanatici fino all’ebetudine?
Di fronte all’impossibilità di vivere una vita normale, in quanti oserebbero criticare interventi di sicurezza “solo” perché sommari o lesivi dei princìpi di un giusto processo? Perché “garantismo è attenzione per la sorte processuale di uno solo, mentre sicurezza è attenzione per la sorte esistenziale di tanti”, si sente dire a ogni canto, saranno chiacchiere da bar ma proprio nessuno le contesta.
Oppure: “Necessitano norme speciali perché la situazione è speciale, di guerra, e dunque ben venga qualsiasi misura di prevenzione, ben vengano leggi speciali e, perché no?, tante Guantanamo e la tortura per chi non parla e la pena di morte per chi ha ucciso”. Oppure: “Bando alle chiacchiere garantiste, è stato di necessità anzi… concorso esterno nella legittima difesa”. E si indugia in disquisizioni che più capziose non possono essere: è o non è guerra di religione?, come se, per rispondere, non bastassero le rivendicazioni suffragate da una sorta di autocertificazione mediante fatti concludenti quali l’appartenenza religiosa, il sacrificio di se stessi che non può non sottendere aspettative metafisiche più o meno virginali e, dulcis in fundo, il fatidico ultimo grido di evviva con nome e cognome.
Lo dissi e lo sentii dire all’epoca dei primi attentati beoti, qualcosa tipo “mi cospargo il capo di cenere ma più del dolore per le vittime mi affliggono le prevedibili limitazioni – in nome della sicurezza – della libertà, della privacy e degli altri diritti fondamentali”.
E allora? Allora riassumiamo! Tenendo presente che, se tale emergenza si rivelerà transitoria come si spera, in ogni caso il boomerang verso l’orticello dietro casa potrà concludere il suo percorso solo in tempi generazionali. Nel frattempo basta con le riformette sull’età per andare in pensione o sulla durata delle ferie.
Occorre che il paese si attrezzi con una magistratura requirente specializzata allo spasimo che possa dialogare con il resto del mondo, che sappia organizzare e controllare attività di intelligenze e big data e operazioni sotto copertura e fare gli occhi alle pulci nelle materie tecno-scientifiche investigative e sceverare con professionale prontezza il credibile dall’incredibile e sia maestra nei giudizi prognostici sul procedimento (art. 125 disp. att. c.p.p.) onde contemperare, per quanto possibile, esigenze di sicurezza e quel che resta dei diritti fondamentali.
Perché ve ne sarete accorti, quando si parla di indagini e processi oramai ci si riferisce solo o quasi a quei dati tecno-scientifici sovraccennati: big data, intercettazioni telefoniche/ambientali, consulenze tecniche, tabulati più o meno triangolati, sistemi trojan di vario tipo, videoriprese ed esami dattiloscopici e del dna oltre che, naturalmente, alle dichiarazioni dei cosiddetti “pentiti”. Fermo restando che codeste ultime rappresentano un capitolo a sé di cui tanto si è scritto e detto – e tanto si scriverà e si dirà, visto che ancor oggi continuano spesso a essere utilizzate acriticamente non già come fonte o principio di prova ma come oro colato che vale come prova autonoma e sufficiente – è lecito rabbrividire se si pensa agli eventuali svarioni informatici anche da hackeraggio o ai riconoscimenti facciali fasulli o alla possibile evoluzione dell’arresto in flagranza (se ne parla eccome!) da flagranza sotto gli occhi di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria a flagranza videoregistrata da remoto. E’ lecito rabbrividire ma anche augurarsi – lo si ripete – che pm e giudici possano essere aiutati ad affinare di giorno in giorno le rispettive specializzazioni professionali.
A tal punto, se consentite, voglio parlare di una mia speranza o forse fantasticheria e iniziare con una domanda-indovinello: il bicchiere lo vedete mezzo pieno o mezzo vuoto? Personalmente sento una struggente nostalgia per il mondo di quand’ero giovane, ed è la parte vuota. E quello mezzo pieno? Vedo anche questo, ma vi avverto che sono un inguaribile ottimista. D’altra parte si suol dire “quando è tempesta ogni pertugio diventa un porto”, e io mi spiego: 1) una riforma seria cioè ordinamentale, con separazione delle carriere e un pm professionalmente specializzato, ci potrebbe aiutare rispetto al pericolo, che si può intravedere dietro l’angolo, di una giurisdizione – scusate l’ossimoro – di prevenzione e forse di polizia che, nel rispetto dei protocolli tecno-scientifici e con buona pace per la logica sillogistica di Aristotele, usando il Dio algoritmo potrebbe provocare domattina la tua condanna al di là di ogni ragionevole dubbio. Non solo, l’allineamento della nostra cultura giudiziaria a quella di tutte le altre costringerebbe i nostri governanti a capire, finalmente, che per realizzare il principio di legalità sono necessari effettività della pena e uno sfoltimento delle migliaia di norme vigenti (300.000?).
Sulla considerazione che ogni norma penale e ogni aggravamento di pena edittale, per condotte sia di micro che di macro offensività, disposti senza che siano prima assicurati controllo ed effettiva sanzione – è dato di comune esperienza e già lo affermava il filosofo del diritto Hans Kelsen quasi cento anni fa – sono disposizioni non solo inutili in quanto privi di deterrenza ma fortemente dannosi. Perché oltre a rendere “pagante” la loro violazione ci rendono assuefatti all’impunità e finiscono con l’attizzare la funesta cultura di furbizia e connivenza e soddisfazione per la conquistata impunità. A conferma, se vi residuano dubbi, ricordo che recentemente perfino le neuroscienze, a proposito di codesta assuefazione, avrebbero registrato addirittura con risonanza magnetica (Journal of Neuroscience 34, pagg. 4.741-749, 2014) correlazione tra l’aggravarsi delle condotte recidivanti e una progressiva riduzione dell’attività dell’amigdala organo preposto al controllo delle emozioni). Vi pare poco per un mezzo bicchiere pieno?
Si aggiunga che l’agognata ristrutturazione ordinamentale non potrebbe non porre fine, in un contesto sempre più chiaro e tecnico, alle rabdomantiche indagini che in passato hanno consentito di processare per decenni, con esiti per fortuna quasi sempre nulli, condotte solo disetiche e convinzioni solo devianti e comportamenti fuori norma e teoremi e perfino ipotesi formulate a furor di media. E finalmente ciascuno di noi sarebbe libero, se rispettoso delle poche e chiare norme sopravvissute, di vivere serenamente la propria vita.
2) Altro barlume di ottimismo può derivare dal fatto che, in uno scenario così capillarmente e incessantemente controllato – quasi radiografato – da quella sorta di camicia di forza ossia di “grande fratello” a tutela della sicurezza, dovrebbero sparire o almeno diminuire i grandi crimini finanziari, commerciali, economici, fiscali, ambientali, gli anemizzanti accumuli patrimoniali delle mafie, le spudorate off shore e gli incroci societari anonimi di quell’1 per cento di cui parlavo prima. Almeno diminuire.
3) Sfoltiti gli avvoltoi sotto il sapiente controllo di una magistratura requirente professionalmente specializzata, di sicuro diminuirebbero povertà e conflitti e potremmo tornare a occuparci dell’orticello dietro casa coltivando le neonate pianticelle: mobilitazione morale, politiche sociali, bene comune, giustizia e dignità. Si potrebbero anche aumentare gli sforzi per una seria cooperazione allo sviluppo. I migranti ritornerebbero in patria, sicuramente tirando un respiro di sollievo. E quelli come Salvini vivrebbero felici e contenti.
Speranze, fantasticherie o fantascienza? Chissà.