Boldrini spiega al Foglio perché no, non si sente trumpiana
Noi e la globalizzazione. Ci scrive la presidente della Camera. Risponde il direttore Claudio Cerasa
Gentile Direttore,
grazie a lei ho finalmente scoperto, con mia grande sorpresa, di essere politicamente contigua niente di meno che al nuovo presidente degli Stati Uniti. Ci rassomigliamo a tal punto che io sarei oggi, insieme ad altri esponenti europei e statunitensi dell’area progressista e di sinistra, “il volto più evidente del trumpismo”.
Il mosaico che lei ha composto sul Foglio di venerdì scorso (“Per l’Internazionale dei Piketty e dei figli di Porto Alegre è arrivato il momento di dire la verità: oui, je suis Donald”) è basato, per quanto mi riguarda, su una distorsione pressoché totale delle posizioni che da molto tempo esprimo. Non ho mai detto che lo scambio delle merci sia un male; penso però che chi fugge dalla violenza del terrorismo e dalle persecuzioni non possa trovarsi di fronte a fili spinati e muri. Non mi sono mai sognata di distruggere il Ttip; ho semplicemente condiviso le battaglie di chi, in tutta Europa, chiede di non giocare al ribasso sui diritti dei consumatori e di garantire gli standard continentali in tema di qualità dei cibi e di salute. Così pure non troverà una mia parola contro l’internazionalizzazione delle aziende, che considero “salto di qualità” necessario; ne troverà invece molte contro la delocalizzazione, che desertifica il tessuto produttivo. I muri non mi piacciono, neanche in economia. Non mi piace però nemmeno un’economia che si fa dominare dalla finanza, e che non si pone il problema di reinvestire almeno una parte dei suoi profitti in ricerca e sviluppo delle aziende. Ho sempre detto – anche agli imprenditori e artigiani della mia regione, le Marche – che il modello “piccolo è bello” è un passato che non può ritornare: anziché rimpiangerlo, bisogna mettersi insieme e “fare sistema”. Quanto poi all’Europa, saprà forse che sono tra i non moltissimi ma agguerriti sostenitori di un rilancio dell’Ue, proprio in questo momento nel quale in molti tifano per il suo tracollo, di qua e di là dall’Atlantico. Ho promosso infatti una Dichiarazione, firmata poi da altri 14 Presidenti di Parlamento, che propone un percorso verso un’Unione federale di Stati, che consolidi la costruzione che ci ha garantito 60 anni di pace e all’interno della quale i suoi 500 milioni di cittadini possano continuare in libertà a muoversi, a studiare, a lavorare.
Queste le mie posizioni, sottratte alla caricatura che lei ne ha fatto per poterle meglio ridicolizzare. Ma una volta chiarita la grande distanza che mi separa dal presidente degli Stati Uniti – senza nemmeno citare i punti di vista diametralmente opposti che abbiamo sulle questioni di genere – sono io, Direttore, a volerle porre una domanda. Su quali dati di fatto si basa il sarcasmo che lei riserva a coloro che, come la sottoscritta, pongono il tema delle disuguaglianze? Non le sarà sfuggita, in questi giorni, la notevole coincidenza di analisi tra due soggetti molto diversi. Il rapporto Oxfam ha sottolineato la crescita vorticosa che stanno avendo le disuguaglianze: per arrivare alla ricchezza della metà povera del pianeta l’anno scorso ci volevano i 62 più ricchi del mondo; ora bastano i primi 8. Ma la cosa più sorprendente è che, con linguaggio diverso, le stesse cose del rapporto Oxfam le abbia dette il rapporto del World Economic Forum, che si è riunito a Davos e che certo non è un’organizzazione umanitaria. Eppure anche per il Wef la disuguaglianza economica è uno dei principali pericoli all’orizzonte mondiale. E le stesse conclusioni ha tratto da tempo il Fondo monetario internazionale. La disuguaglianza troppo marcata non è più soltanto un problema etico – lei direbbe da “buonisti”. E’ diventato un problema economico, e io aggiungo: anche politico. Anzi, il problema numero uno della politica, specialmente quella di sinistra che della lotta alla disuguaglianza dovrebbe fare una sua ragion d’essere. O gli si dà una risposta, oppure finiremo tutti sommersi dalla marea montante del populismo.
Ma questi dati sembrano non trovare cittadinanza nella sua analisi. Dove vengono dipinti come “sinistra al caviale” tutti coloro che, numeri alla mano, esprimono dubbi sugli effetti della globalizzazione e chiedono che qualche intervento pubblico corregga le “spontanee” dinamiche del libero mercato, contrasti l’aumento della povertà e il declino della classe media. Sbeffeggiare gli interlocutori può essere divertente, ma non intacca la durezza di cifre che parlano in modo drammaticamente univoco. Perché non guardare in faccia i problemi, anziché esorcizzarli con rappresentazioni macchiettistiche?
Laura Boldrini, presidente della Camera
Cara presidente, grazie della lettera. Se mi consente, però, le sue parole confermano esattamente quello che il Foglio scrive da qualche giorno: sulla politica economica, le sue posizioni coincidono perfettamente con quelle di Trump e la visione protezionista del mondo declinata dal nuovo presidente degli Stati Uniti è la stessa che per anni ha portato avanti il partito con il quale è arrivata in Parlamento, Sel, e anche lei. Cara presidente, la politica non è fatta solo di reazioni ma è fatta anche di azioni. Forse che Trump è contro il libero commercio? No, è contro il dumping cinese e per la difesa degli standard americani (più o meno come lei). Forse che Trump è contro l’internazionalizzazione? Direi di no, è contro la delocalizzazione in Messico (più o meno come lei). E quando lei dice, cara presidente, “non mi sono mai sognata di distruggere il Ttip”, “non troverà una mia parola contro l’internazionalizzazione delle aziende”, le potrei rispondere che non basta non dire nulla contro il trattato di libero scambio, non basta non dire nulla contro l’internazionalizzazione delle aziende.
Se si crede nel mercato aperto e nella globalizzazione come strumento straordinario di diffusione del benessere bisogna mettere da parte l’arsenale retorico a cui spesso attinge anche lei – quello che prevede che ogni problema del mondo sia necessariamente colpa del liberismo sfrenato – e dire le cose come stanno, anche a costo di essere impopolari. Per difendere la globalizzazione, non basta attaccare il trattato di libero scambio: si dovrebbe sostenerlo. Per difendere la globalizzazione non basta non dire nulla contro l’internazionalizzazione delle aziende: si dovrebbe twittare a favore del capitalismo sfrenato, riconoscendo semmai che la “desertificazione del tessuto produttivo” e la “delocalizzazione” avvengono non a causa del liberismo sfrenato, ma a causa di un tessuto produttivo, quello italiano, drogato da anni di statalismo sfrenato, e incapace di attrarre capitali stranieri come sarebbe lecito aspettarsi da una delle economie più importanti del mondo.
Avallare, come fa lei, come fa Bernie Sanders, che non a caso in politica economica si è già convertito al verbo trumpiano, l’idea che la globalizzazione produca diseguaglianze non è solo un modo di portare acqua al mulino del trumpismo, è un modo per avallare una straordinaria fake news. Lo studio Oxfam che ha trovato molto spazio in questi giorni sui giornali è uno studio molto controverso: i dati usati da Oxfam, come ha ricordato il nostro Luciano Capone, misurano la “ricchezza netta”, ovvero attivi meno debiti, e ciò vuol dire che tra i più poveri del mondo ci sono tutti quelli che hanno più debiti: ma avere debiti non significa di per sé essere poveri. Forse che il superindebitato Bernie Madoff o i grandi debitori insolventi delle banche sono i più poveri del mondo? Direi di no.
Le diseguaglianze naturalmente esistono ma lasciare intendere che la globalizzazione produca più malessere che benessere è un modo autolesionista di descrivere il mondo, che prescinde del tutto dai dati di realtà. Tra il 1990 e il 2011 la percentuale della popolazione mondiale che vive in condizioni di povertà estrema – ovvero con meno di 1,25 dollari al giorno – è crollata dal 36,4 per cento del totale nel 1990 al 14,5 per cento nel 2011: è la più grande riduzione della povertà nella storia dell’umanità, circa 1 miliardo di poveri in meno. Dal 1970 a oggi sia il coefficiente di Gini sia l’indice di Atkinson (indicatori che misurano la distribuzione dei redditi) segnalano una riduzione della diseguaglianza a livello globale. Potremmo andare avanti per ore, cara presidente Boldrini, ma tutto questo non è per criticare la sua posizione, rispettabile, ma è per aiutarla a capire che oggi siamo di fronte a un nuovo mondo in cui le sfumature non ci possono essere: o si è a favore della globalizzazione, e si riconosce che dove le merci e i capitali viaggiano con più velocità c’è più libertà d’impresa, più libertà individuale e più ricchezza potenziale; o si pensa il contrario e ci si schiera così inevitabilmente con Roberto Saviano e Bernie Sanders al partito dei trumpiani di sinistra, che non a caso ieri hanno esultato per la scelta del nuovo presidente americano di far uscire gli Stati Uniti dalla Trans-Pacific Partnership. O contro la globalizzazione o con la globalizzazione. Perché, cara presidente, non guardare in faccia i problemi, anziché esorcizzarli con rappresentazioni macchiettistiche del mondo in cui viviamo? Un caro saluto.