Politico attivo e magistrato in aspettativa, non solo Michele Emiliano
Il presidente della Puglia davanti al Csm, ma così fan tutti
Roma. Viene quasi da dargli ragione, a Michele Emiliano. Proprio ora che si candida a segretario del Partito democratico, abituati a certe modalità, sembra che il suo sia proprio un caso di giustizia disciplinare a orologeria. Per 13 anni ha fatto tutto quello che ha voluto e come più gli ha fatto comodo e solo ora se ne accorgono? Il presidente della Puglia e magistrato in aspettativa dovrà andare a giudizio, il prossimo 6 febbraio, davanti alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura (Csm) perché è iscritto e partecipa alla vita del Pd in “forma sistematica e continuativa”. In questo modo, secondo la procura generale della Cassazione, Emiliano avrebbe violato la norma che proibisce ai magistrati di fare vita politica – ma più precisamente partitica – attiva, una norma “posta a garanzia dell’esercizio indipendente e imparziale della funzione giudiziaria”.
E solo adesso se ne rendono conto? E soprattutto, può considerarsi l’iscrizione a un partito un’aggravante o qualcosa che mina l’imparzialità più dell’occupazione di incarichi politici e istituzionali? Michele Emiliano era sostituto procuratore a Bari quando si è candidato ed è stato eletto sindaco della stessa città. Ed è stato primo cittadino di Bari per dieci anni rimanendo nella magistratura. Il Csm dov’era? Finita l’esperienza di sindaco, nel 2014, per non ritornare a fare il magistrato, si è fatto nominare assessore alla polizia municipale nel comune di San Severo. Incarico durato solo per un anno, il tempo che serviva per il salto in regione, di cui è presidente dal 2015. Il Csm dov’era? Nel frattempo Emiliano è stato anche segretario regionale del Pd dal 2007, presidente dal 2009 e poi di nuovo segretario dal 2014 e viene messo sotto accusa ora che è un semplice iscritto?
Emiliano si è difeso in maniera un po’ stramba. Intervistato da Giovanni Minoli, è stato capace di dire nel giro di pochi secondi che “è inevitabile e sano” che un magistrato si candidi nella città in cui ha lavorato (separazione dei poteri, addio), poi che non si è dimesso dalla magistratura perché ha bisogno di conservare un lavoro altrimenti finirebbe sotto ricatto “dei politici” (ma lui cos’è?) e infine, con una piroetta alla Nureyev, che è d’accordo con l’Europa che chiede di vietare il rientro in magistratura delle toghe che fanno politica (“è una cosa che io ho sempre sostenuto”). A parte il cortocircuito logico, del tutto naturale in questa fase dadaista del discorso pubblico, la sua difesa è inattaccabile quando dice: “Sono l’unico magistrato nella storia a cui viene contestata l’iscrizione a un partito politico”. Fanno tutti così, lo fanno da una vita e ve la prendete con me? L’elenco dei magistrati scesi in politica senza aver abbandonato la toga è sterminato, da Anna Finocchiaro ad Antonio Ingroia, da Doris Lo Moro a Felice Casson, da Stefano Dambruoso a Cosimo Ferri, passando per tutti quelli entrati nelle amministrazioni locali: Giuseppe Narducci con De Magistris a Napoli, Lorenzo Nicastro con Vendola in Puglia, Giovanni Ilarda in Sicilia con Lombardo e Vania Contrafatto con Crocetta.
Proprio nei giorni scorsi il Consiglio d’Europa, nel rapporto del suo organismo anti corruzione (Greco) sull’Italia, ha scritto che il vero problema non è l’iscrizione dei giudici ai partiti, ma le porte girevoli tra tribunali e incarichi politici, che portano a un “inevitabile rischio di politicizzazione della magistratura”. Il Greco scrive che in Italia serve una “delimitazione più rigorosa tra le funzioni giurisdizionali e la partecipazione dei magistrati nell’attività politica o governativa, in quanto quest’ultima rischia di compromettere l’immagine di indipendenza e imparzialità della giustizia e minaccia la fiducia nel sistema giudiziario”. Domani ci sarà l’inaugurazione dell’anno giudiziario, chissà se si parlerà di questi temi, ma di certo si intuisce quali sono le priorità delle toghe: per la prima volta l’Anm diserterà la cerimonia per protestare contro la posizione del governo su pensioni e trasferimenti dei magistrati.