Matteo Renzi (foto LaPresse)

Renzi 2.0 va bene purché non finisca come Giovanni Goria

Lanfranco Pace

Il democristiano e il rottamatore hanno molto in comune, ma Matteo stia in campana se non vuole fare la stessa fine. Bocciato Davigo, ma il suo schiaffo al governo è da salvare. La Raggi? Abbiate pietà per i nulli. Il Pagellone della settimana politica.

Ancora circondato dalla muta, sempre cosciente di stare sulle palle a una pletora di democratici (non immaginavo che mi odiassero tanto, ha detto  all’indomani della sconfitta referendaria e l’odio si sa che brucia la pelle), l’ex premier si sta facendo concavo. Il nuovo Renzi non fa più la punta che spariglia e sfonda, fa passi indietro, riduce la dialettica interna e il nodo partito-elezioni a un dilemma semplice, elezioni a giugno precedute da primarie oppure congresso e poi voto nel febbraio 2018. Lui ha la sua preferenza ma si rimette alla scelta collettiva del gruppo dirigente, a un quasi caminetto fra capi corrente.

  

Negli anni 80 fece irruzione sulla scena Giovanni Goria, democristiano di Asti. Fu ministro del tesoro in più governi successivi, il Fanfani V, i Craxi I e II, il Fanfani VI, e nel 1987 approdò a Palazzo Chigi. Era giovane, stonava rispetto ai gerontocrati dell’epoca, Forattini (voto 10) lo ritraeva sempre come una massa irsuta a dire tra le righe che non contava nulla nella gerarchia della balena bianca ma era piuttosto bell’uomo, passava bene in televisione, aveva un che di Kabir Bedi attore allora popolare per aver interpretato Sandokan, si esprimeva in una lingua accettabile,  insomma sembrava  una novità interessante e con un futuro: il suo governo durò sì e no un anno, lui rientrò nella palude e finì ingiustamente e vergognosamente fatto a pezzi nel mattatoio di Mani Pulite da cui uscì assolto dopo essere morto di cancro.

 

Renzi che anziché rompere prova a unire e a cucire non è solo una novità,  è un ibrido, fra il desiderio ardente di comunità di Cuperlo, il realismo di sinistra di Martina, il dalemismo innato di Orfini e la furbizia somma e democristiana di Franceschini: diciamo che la sbiossa al referendum   gli ha cambiato i connotati e magari è un segno di saggezza, probabilmente funzionerà pure, contribuendo a salvare l’unità del partito e a tirarlo fuori dai guai. E’ comunque una modificazione genetica,  lo spaccone che ha diviso il mondo in  vecchi e giovani,  perdenti e vincenti, gufi e ottimisti,  affronta la complessità del reale,  non più leader carismatico confortato e suffragato direttamente da elettori e militanti ma primo fra i pari del regno. E’ un gioco a cui non ha mai giocato e che gli altri conoscono molto bene. Ha da stare molto in campana.  

 

DAVIGO, IL MASTINO

 

E’ una bestia Pier Camillo Davigo, nessuno come lui sa difendere i magistrati oltre ogni ragionevole dubbio. L’altra sera a Porta a Porta ha lasciato basito il bravo ex sottosegretario alla giustizia Enrico Costa (voto 9) dicendo che un imputato assolto in un processo non ha diritto a definirsi innocente, a volte  si viene assolti perché una (pessima) legge impedisce di raccogliere alcune prove o di presentarle in aula. Che in uno stato di diritto la legge sia comunque al di sopra di tutto anche se non è una bella legge  è un’opzione per Davigo e a supporto dei suoi argomenti ha pure detto un paio di fandonie sulla giustizia in America (e per questo voto 0). Ma siccome è anche uomo di rara intelligenza e cultura, (e per questo voto 10) ecco che dà una sberla come si deve al governo che non vuole o non sa affrontare  una depenalizzazione seria e larga dei reati, il solo modo per sfoltire le carceri e snellire il lavoro dei tribunali. E un’altra ai suoi colleghi che non dovrebbero mai fare politica, la carriera del magistrato si basa su competenza e professionalità, qualità diverse da quelle che servono in politica, basata sul consenso e sulla delega, infatti i magistrati passati alla politica si sono rivelati pessimi politici e retrospettivamente anche pessimi magistrati. Poi magari ci sono anche i geni universali, ha detto con un sorriso cattivo senza fare nomi.  Scommettiamo che si riferiva  a Michele Emiliano? ( che, sia detto per inciso, fra i magistrati passati alla politica è quello che se la sta cavando meglio, voto 6 dunque, se non altro per come riesce a far parlare di sé).

 

EMILIANO AL MASSIMO

 

Già comanda in Puglia. E sotto le cure di D’Alema, il miglior facitore di re della nostra storia recente diciamo,  scalda i muscoli per la segreteria  del Pd nazionale o in subordine della costola scissionista. Il programma ha la stessa freschezza del libro Cuore, poveri e buoni contro ricchi e cattivi, è il papa Francesco di Bari e tant’è. Il progetto poi ha la stessa chiarezza semantica dell’Ulivo 4.0 in nome della pluralità che vuole  Bersani, una lagna che ricorda il programma in 276 pagine ( ma forse erano 306 o 316) dell’Ulivo-Unione che tutti firmarono e nessuno lesse tenendosi le mani libere per cuocere Prodi a fuoco vivissimo,  cosa che avvenne in pochi mesi.  

 

PIETA’ PER I NULLI

 

Risparmiatecela per favore. Capisco Mentana che fa il suo lavoro e sta alla grande sul pezzo (voto 9) ma ora che si volta pagina non potremmo fottercene di Virginia Raggi e degli altri? Lei ormai è una macchietta, frasi fatti e  sorrisi ammiccanti e sguardi profondi che mostrano ancora di più il vuoto siderale che ha in testa. E’ una donna sola passata da Ottavia al Campidoglio, bisogna capirla.  E capire i sentimenti  nei suoi confronti da parte di un uomo  dimesso come Salvatore Romeo, estensore delle polizze della solitudine. La vicenda è un affresco un po’ desolante di certa Roma d’en-bas, di borghesi piccoli piccoli che provano ad arrampicarsi ma vengono tragicamente  castigati dal fato:  in assenza di una vera borghesia imprenditrice, colta, delle arti e delle professioni liberali e dovendo scegliere,  sono meno angoscianti i riti fondanti della Roma palazzinara, coca e gnocca. La sindaca parla e ammicca, coniuga tutto al futuro, farà, terrà la barra . E si fa forza con una frase che nessun sindaco al mondo oserebbe dire: resto al mio posto perché Grillo si fida, (voto 2 a entrambi). Ha ragione Sgarbi (voto 10): solo per questo dovrebbe dimettersi.

 

NON FACCIAMO GLI AMERICANI

 

Ogni volta che ci mettiamo in testa di fare come in America facciamo disastri. Prendiamo l’insider trading, il reato è molto chic e fa tanto moderno, ma se non si danno alla Consob poteri e mezzi equivalenti a quelli della Sec è una barzelletta. Prendiamo la class action, in America è lo spettro delle multinazionali: la versione rivista e corretta dal governo Prodi per l’Italia, secondo cui non si possono chiedere danni economici e materiali ma solo morali, è un’altra barzelletta.

 

Prendiamo il fundraising, oltre Atlantico è fonte di trasparenza, obbliga a trascrivere anche donazioni di un solo dollaro su elenchi consultabili da chiunque, in Italia non si sa nulla né dei contributi elargiti alle cene (vedi quelle di Renzi) né delle micro-offerte (il copyright è della Raggi stessa) che sono così “micro” da essere tenute segrete dall’organizzazione.

 

Ora si lavora ad altri due prodotti di importazione : l’albo dei lobbisti autorizzati e il recall,  procedura secondo cui gli elettori revocano un eletto, una sorta di vincolo di mandato espresso dal basso per il quale stravedono i 5 Stelle.  Verrà fuori di nuovo uno di quei casini...

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  • Lanfranco Pace
  • Giornalista da tempo e per caso, crede che gli animali abbiano un'anima. Per proteggere i suoi, potrebbe anche chiedere un'ordinanza restrittiva contro Camillo Langone.