Altro che legge elettorale, su Rep. Zagrebelsky sogna la Balena bianca
Il diritto della politica di cambiare le carte in tavola
Da ritagliare la prima pagina di ieri di Repubblica dove Gustavo Zagrebelsky e il giustapposto Stefano Folli hanno scritto di legge elettorale. Commentatori en folie, si sarebbe tentati di dire. L’incipit del principe russo è da vertigine: gli elettori, noi in quanto elettori non esistiamo in natura. Siamo il prodotto delle leggi e dei sistemi elettorali, artificio figlio di un artificio, creature in provetta inserite in qualcosa che non ci appartiene, è esterno a noi e che solo è deputato a darci la pienezza della vita civile e a contarci allo scopo di produrre un risultato.
Se però sono le leggi che fanno l’elettore, ecco che sorge un problema: può succedere che lo rispettino e siano dunque leggi elettorali sincere oppure che lo usino e siano allora mentitorie. L’Italicum e prima ancora il Porcellum erano sostanzialmente abusive, performative, scritte non per regolare ma per manipolare e quindi strutturalmente “mentitorie”.
Eppure le leggi elettorali, più di ogni altra, dovrebbero appartenere ai cittadini e meno di tutte le altre ai governanti.
Le buone pratiche in materia elettorale sono state addirittura messe, a nostra insaputa, in un codice scritto da una Commissione che giudica lo stato della democrazia nei paesi europei, e però non ha forza di legge. Mentre lo ha l’articolo 3 del protocollo n.1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che riconosce il diritto a elezioni libere ed eque: sulla cui base la corte di Strasburgo ha giudicato contraria al principio di neutralità una legge che la Bulgaria aveva adottato in prossimità delle elezioni e che favoriva un partito a scapito di un altro: Ekoglasnost contro Bulgaria, dossier n. 30386/05.
Noi, bene educati da conduttori televisivi che temono che la share crolli appena ci si attarda un attimo sulla legge elettorale, siamo a occhio solidali con i bulgari.
Di leggi cambiate all’ultimo momento, a ridosso del fischio d’inizio, per favorire una parte e danneggiarne un’altra è piena la storia anche di chi di solito si mette a dare lezioni. La sola volta in cui i lepenisti, quelli del padre, riuscirono a entrare in Parlamento fu nel 1986 solo perché l’allora presidente Mitterrand mise tra parentesi la legge maggioritaria e introdusse la proporzionale al solo scopo di ridurre le dimensioni della sconfitta socialista. Nessuno però accusò il presidente di essere un manipolatore, un mentitore e un azzeccagarbugli, ma si riconobbe il diritto di un politico a essere così scaltro e privo di scrupoli da cambiare le carte in tavola all’ultimo minuto.
Zagrebelsky non vede mai la politica come meccanismo materiale, terribile e potente, ma come pallida impotenza, raglio dell’asino o belato della pecora: è nello spirito del tempo e la sua cultura giuridica gassosa ha permeato le decisioni della Corte costituzionale. Il bipolarismo ha fallito, i poli sono tre di peso elettorale comparabile, attribuire un qualsiasi premio alla più grande minoranza perché si trasformi in maggioranza sarebbe distorsione della giusta rappresentanza e vulnus inferto alla democrazia.
Da capofila del fronte del No al referendum del 4 dicembre, Zagrebelsky sogna un Parlamento in cui si daloghi, si facciano compromessi, si costruiscano dopo il voto coalizioni alla luce del sole. Vero è che l’Italia è ancora formalmente una repubblica parlamentare ma il Parlamento dovrebbe servire anche a delineare maggioranze stabili: al giurista aristocratico non dispiace l’era della Balena bianca o, peggio, della quarta Repubblica francese.
Che sembra invece un rischio e anche grave appena un paio di colonne più in là. Stefano Folli ce lo ammolla così, senza avvertire: nello scontro tra populisti sovranisti e difensori dell’Unione europea e della moneta unica, un bel maggioritario alla francese, cioè doppio turno uninominale di collegio, è il rimedio migliore che c’è, taglia le unghie alle ali estreme, di destra e di sinistra. La legge elettorale fu concepita da Debré anche come argine all’allora influente Partito comunista ma il vero discrimine, il cambiamento delle istituzioni repubblicane, agli occhi del generale De Gaulle era rappresentato dall’elezione diretta a suffragio universale del presidente della Repubblica: il regime semi-presidenziale è triangolare e il rapporto più importante, quello in cui si gioca la fiducia nel futuro, è tra il popolo e il leader. Ma anche qui si dimostra che leggi e meccanismi elettorali sono convenzioni, vanno e vengono senza eccessivi rimpianti. E’ piuttosto questione di uomini: avere una legge iper maggioritaria e magari introdurre nelle forme dovute nuclei di semi presidenzialismo come vorrebbero Ignazio La Russa e le Sorelle d’Italia non è che sia un grande affare, se poi ti ritrovi sul groppone uno come François Hollande.