Matteo Renzi e Andrea Orlando (foto LaPresse)

La direzione sbagliata del Pd

Umberto Minopoli

Orlando cita la Bad Godesberg per proporre un'alternativa "socialdemocratica" a Renzi. Ma, piuttosto, è "modernizzazione" la parola-driver di cui ha bisogno ora il partito

Bad Godesberg: mito e insidia. Il ministro Orlando  la evoca per accreditare un'alternativa "socialdemocratica" a Renzi: non di sinistra e riformista con i titoli di nobiltà. Una curiosità innanzitutto: Bad Godesberg, storicamente, avrebbe più somiglianze con una coraggiosa sanzione del renzismo che con l'addio a esso. Fu, infatti, una "rivoluzione" dall'alto, promossa dal gruppo dirigente della Spd (alla cui ombra crescevano gli Schmidt e i Brandt) contro le minoranze interne, attempate e riottose alla politica del leader del partito, Herbert Wehner. Nei fatti, l'Spd (come il Pd di Renzi) promosse il programma di Bad per battere le resistenze della vecchia "ditta" socialista che si opponeva alla politica di modernizzazione e sostegno al neocapitalismo keynesiano del gruppo parlamentare del partito, diretto da Wehner. Orlando evoca Bad Godesberg dichiarando la necessità di rilanciare il Pd, "la più importante realizzazione dei progressisti nel nuovo secolo" (un po' pomposamente) e di non sfasciarlo con nuove scissioni.

 

Ottimo. Ma allora precisiamo, per favore, il senso di una Bad Godesberg italiana. Se con essa si intende evocare l'attualità di una svolta socialdemocratica del Pd non ci siamo: né con i propositi dichiarati di rilanciare le ragioni della nascita del Pd (che nacque, infatti, come partito "democratico" e non "socialdemocratico") e né con un'attualità programmatica della socialdemocrazia storica. Ché sarebbe una pretesa, infondata e retrograda: la socialdemocrazia ha esaurito, e da tempo, ogni residua attualità. Semmai, per rinverdire riferimenti storici di versioni più attuali di socialdemocrazia, più che Bad Godesberg, che diede una sistemazione di principio alla rottura col marxismo, col socialismo ottocentesco e col comunismo, il riferimento sarebbe al congresso Spd di Berlino del 1980 o al blairismo degli anni Novanta. Sono essi, non Bad Godesberg, che segnarono il tentativo di rinverdire, idealmente e programmaticamente, la socialdemocrazia nata a Godesberg e portarla fuori dall'impasse della crisi fiscale del welfare e dell'esaurimento del keynesismo socialista del dopoguerra. Problema che resta quello dei partiti socialisti che (declinando) permangono.

 

Se il comunismo è morto per fallimento e implosione, il grande rivale socialdemocratico è morto per anagrafe. E per eterogenesi dei fini: i suoi successi si sono trasformati, alla lunga, in limiti e pesantezza sociale, fiscale, economica. Per l'esaurimento della crescita economica e per il profondo mutamento sociale che ha sconvolto lo sfondo delle tradizionali politiche socialiste. Bad Godesberg, per davvero, non è più un modello. Che, invece, abbiamo e più vicino di quanto crediamo. Paradossalmente i segnali di una svolta, nel profilo e nei caratteri di una nuova formazione progressista (termine più azzeccato di quanto sembri) sono rintracciabili proprio nel renzismo. Non, caro Orlando, nell'atto di nascita del Pd. Il Pd, alla sua nascita non accompagnò una ridefinizione del riformismo. Nacque per stato di necessità (la disarmante inanità dei residui del Pci, della Dc e della tradizione laica e socialista). Per una sorta di disperazione e resistenza al berlusconismo promettente. Ma nacque senza una vera cultura comune riformista. Con Renzi il Pd ha avuto in dote più di un'idea e una cultura aggiornata del riformismo, corredata di agende di riforme.

 

Quella dei filoni originari del Pd era, purtroppo, inconsistente. Portava tutte le tare ideologiche, i limiti di vecchiezza, i tardivi adeguamenti (gli eredi del Pci sono diventati socialisti e riformisti, non dimentichiamolo mai, nel nuovo secolo, nel Duemila) e i limiti storici (riformismo mancato) della politica democratica della prima Repubblica. Quella tradizione si era fatta scivolare addosso perfino il blairismo, pur sempre un'innovazione, tanto era stato stantio e poco consistente il suo riformismo. E' Renzi che porta un'idea di riformismo in dote. Quale? Vorrei dirla con un ragionamento recente di Fausto Bertinotti. Non spaventatevi. Affermerò il suo esatto opposto e contrario. Ma lui parte da una considerazione giusta e sacrosanta (poi arriva al nichilismo e alla sconfitta come stato dell'anima). Dice Bertinotti: la sinistra non è eterna (come pensano quelli che la evocano come in riti spiritici). La sinistra, nel mondo di oggi, è un nome. Che non si accompagna a fatti propulsivi. Evoca sconfitte elettorali, diradamento dei riferimenti sociali, inesistenza e impassibilità dei contenuti. Un deserto. E' vero. Ed è vera anche la seconda considerazione che lui fa: basta ridurre la parola sinistra a sempiterni valori impalpabili e buoni a tutto (eguaglianza, giustizia, ecc). La sinistra nella storia non è stata fatta di valori comuni. E' stata politica, partiti, governo, ideologia. Oggi tutti esauriti. Occorrerebbe un'idea forte, un driver, una parola-locomotiva cui agganciare qualche vagone di senso e di significato che riprendano un cammino. E' vero. L'idea forte che Bertinotti, patetico, romantico e comunista, ripesca dalle ceneri – conflitto e antagonismo sociale – è ovviamente una catastrofe. Bertinotti, coerentemente con se stesso, finisce nella mitologia del rivoluzionarismo esistenziale e nel nichilismo: chi si deve opporre sempre si presuppone che debba sentirsi sempre sconfitto. Ma la sua analisi è giusta: occorre una nuova idea forte per riaccreditare un senso alla sinistra.

 

Io penso che, nel nostro piccolo mondo italiano (ma con un senso sovranazionale per la sinistra nel mondo) uno come Renzi questa idea-forza, questa parola-locomotiva l'abbia intravista e dichiarata: modernizzazione. Il nuovo riformismo deve liberarsi dalle aggettivazioni distorcenti della sinistra eterna, dalle paranoie sociali, dai millenarismi catastrofistici alla Laudato si', dalle mitologie anti-crescita, dai surrogati dell'eterno antagonismo. Nello specificare il suo riformismo (e le sue riforme) Renzi ha portato nella sinistra (in tutte le sue versioni storiche) due "piccole" innovazioni: prima, una riforma è quella cosa che cambia in concreto una specifica situazione corrente in un campo determinato della vita del paese. Non è una Weltanschauung. Il riformismo esiste se fa riforme, recitava un vecchio slogan del Psi. Il resto è noia; secondo, una riforma deve,  come filo logico, segnare sempre un passo avanti nel senso dell'efficienza, dei mezzi che usa (tecnologia), del miglioramento degli output, dell'oggetto che va a riformare. Le riforme implicano cultura tecnica e competenza di governo. Non è l'ideologia il senso di una riforma: è il miglioramento. Insomma: le riforme non sono di destra o di sinistra a prescindere. Le si fa per modernizzare. Poi ognuno gli dia le aggettivazioni che vuole. Ché, magari, servono per i voti degli appartenenti. Insomma è la modernizzazione la parola-driver. Se è così il renzismo, caro Andrea vecchio migliorista come me, è quanto di più vicino esista a una Bad Godesberg del 2000. Non buttatelo a mare.