Quei litigi democratici a cui non siamo più abituati
Renzi gioca la carta delle dimissioni e anticipa il congresso. Il voto è più lontano, forse. Minoranza in tumulto
Roma. Quando la vita, il caso o la politica mandano la sinistra in riflessione, orizzonti immensi si aprono: quasi sei ore di interventi. Eppure, in un paese in cui alle discussioni democratiche nei partiti non è più abituato nessuno, nell’Italia dei partiti padronali e dei blog sacri, dei leader vocianti e indiscutibili, la durata fiume di questa direzione nazionale del Pd nella quale Matteo Renzi chiede il congresso a breve (tra fine aprile e inizio maggio), e la sinistra interna lo respinge, acquista una sua speciale generosità démodé, una sua nobilità pur nelle contorsioni, nelle sofferenze, nei litigi, nelle provocazioni, nelle furberie contrapposte e persino negli sbadigli che il lungo dibattere provoca nei cronisti, una nobilità antica, e forse preziosa, alla fine riconosciuta da tutti i litiganti di questo partito che periclita vistosamente, diviso in circa undici correntine di maggioranza e in una nube di micro minoranze in contrasto le une con le altre per motivi, nella loro labilità, che forse non sono ben in grado di ricordare nemmeno loro da un giorno all’altro.
E allora “dopo il 4 dicembre le lancette della politica sono tornate indietro, quasi ai tempi della Prima Repubblica: sono tornati i caminetti, ci si perde nei litigi e non si fanno proposte”, esordisce Renzi, rivolgendosi a questa platea di parlamentari, amministratori locali, consiglieri regionali e membri del governo (c’è Paolo Gentiloni, ma anche il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, non iscritto al partito) riuniti in un centro congressi vicino a piazza di Spagna. “Adesso si chiude un ciclo alla guida del Pd”, dice Renzi. E il segretario parla per quaranta minuti, non risparmia sarcasmi (“il congresso non si fa per decidere la data del voto”, “la scissione sul calendario è un ricatto morale”) o allusioni contundenti (“voglio vedere cosa uscirà sulle banche pugliesi”), e nel suo primo intervento Renzi lascia capire che si dimetterà per anticipare il congresso del partito, “in un momento drammatico che mette in subbuglio i sentimenti”.
Ed è dunque con i sentimenti, mentre all’esterno della sala blindata dalla polizia ci sono militanti che litigano tra loro rimpallandosi insulti, che Renzi apre le danze, un po’ barocche eppure generose, della direzione nazionale, un’assemblea in cui la parola scissione fa capolino qua e là, esplicitamente o implicitamente in quasi tutti gli interventi, in quello di Michele Emiliano (che si candida alla segreteria, e dice: “Come si fa a fare il congresso se non sappiamo nemmeno con che legge elettorale si vota?”), in quello di Roberto Speranza (“la scissione è già avvenuta, la scissione è quella dal nostro mondo”), e pure nelle parole di Pier Luigi Bersani che respinge anche lui il congresso da tenersi in tempi brevi perché, dice abbassandosi gli occhiali sul naso: “La prima cosa da comunicare alla gente è quando si vota. Per questo noi dobbiamo garantire la conclusione ordinata della legislatura”. Così tutta l’opposizione interna, meno Cuperlo, si schiera contro la proposta del segretario, e a sorpresa, nel suo intervento, anche Andrea Orlando, il ministro della Giustizia, sancisce, nelle pieghe del suo intervento, la separazione da Matteo Orfini (fino a ieri suo socio nella corrente dei giovani turchi) e anche una distanza da Renzi (tuttavia definito “l’asset fondamentale di ciò che il Pd dispone”): il Pd non ha bisogno di un congresso, dice infatti Orlando, “ma di una conferenza programmatica, altrimenti si rischia una discussione tra di noi e non con il paese”. E nel corso delle sei ore di dibattito sembrano contrapporsi continuisti contro sostenitori del voto anticipato, in una contesa, in un conflitto, che visto col grandangolo, nella lunga prospettiva di questi ultimi mesi, si può forse semplificare in questo modo: Renzi chiede le elezioni (anche a ottobre, prima della manovra), ma la minoranza gli dice che prima è necessario il confronto, allora Renzi propone le primarie e quelli gli rispondono che serve il congresso, alla fine lui accetta di fare il congresso ma loro gli dicono che non serve fare una conta frettolosa. Se all’ombra di tutto non ci fossero anche calcoli di tipo personale, di sopravvivenza, calcoli che riguardano la possibilità di essere rieletti e inseriti nuovamente nelle liste, considerazioni che hanno a che vedere con la prossima legislatura e il potere che ciascuno potrà esercitare sui gruppi parlamentari, forse non ci sarebbe nulla da temere per la tenuta del partito. “Ma non è così”, dicono alcuni senatori della minoranza, mentre un po’ torvi lasciano l’assemblea in cui è passata a maggioranza la risoluzione del segretario. Comincia oggi la lunga, lunga campagna elettorale. E forse, temono alcuni, anche la scissione del Pd.