Perché i renziani vedono la scissione e sotto voce dicono: “Bene, è cosa fatta”

David Allegranti

Non c'è solo la minoranza a cercare la rottura nel Pd

Roma. Non è più solo Pier Luigi Bersani a vedere la scissione. Adesso sono anche i renziani a considerarla già nei fatti. Lo dimostrerebbe, per qualcuno, anche la modifica statutaria che il presidente del Pd Matteo Orfini intende presentare all’assemblea domenica prossima, quella dove Renzi si presenterà dimissionario: il simbolo, dopo il cambio dello Statuto, sarà nelle mani del tesoriere Francesco Bonifazi fino all’elezione del nuovo segretario. Meglio adottare ogni cautela, hai visto mai. Ma il clima di reciproca sfiducia è ormai un fatto palmare. Il Foglio ha contattato parlamentari e dirigenti e intellettuali vicini al segretario del Pd che chiedono però di non essere virgolettati. Dicono, ancorché con sfumature diverse, la stessa cosa: “I bersaniani? Se ne andranno, magari non tutti”. Insomma, la storia del Pd per come lo abbiamo conosciuto potrebbe esaurirsi domenica con l’assemblea nazionale del Pd. D’altronde, l’ex segretario Bersani non vede passi in avanti, aspetta un segnale da Matteo Renzi che però non arriva. “Cosa deve fare uno per ricevere una telefonata?”, dice riferendosi a Matteo Renzi. “Ho fatto il segretario anch’io, so come funziona. Non che basti una telefonata... Ma almeno per buona educazione”. Renzi però sembra già essere con la testa oltre la scissione. Punta dritto al congresso anticipato del Pd, liquida il probabile addio di Bersani come una “scissione sulla convocazione della data del congresso”, cerca quarantenni in giro per l’Italia, riallaccia i rapporti con Matteo Richetti e Graziano Delrio, che stanno organizzando una serie di appuntamenti programmatici, su lavoro ed economia, con alcuni studiosi.

 

Un modo anche per rispondere alle sollecitazioni del ministro Andrea Orlando sulla maggiore “profondità” da raggiungere. Renzi riparte insomma dal mitologico territorio e – non per un caso – da Torino. Dal 10 al 12 marzo “con gli amici che sosterranno la mozione congressuale ci vedremo a Torino, al Lingotto. Nel luogo dove nacque il Pd a fare... il tagliando a quell’idea di quasi dieci anni fa. Ma anche a fare le pulci all’azione di governo di questi tre anni – dice Renzi – per costruire il prossimo programma. Cosa ha funzionato, cosa no. Cosa dobbiamo fare meglio, oggi e domani. Una discussione vera, senza rete. Su ambiente, cultura, scuola, lavoro, università, sanità, infrastrutture, tasse, giustizia e l’elenco potrebbe continuare a lungo”. L’ex premier, si capisce, è già in campagna elettorale per il congresso e non vuole fornire argomenti agli scissionisti. “Non è la prima volta che alcuni compagni di partito cercano ogni pretesto per alimentare tensioni interne. E io non voglio dare alcun pretesto, davvero. Voglio togliere ogni alibi”, dice. Tradotto significa: se ve ne andate voi, mi evitate la fatica di non ricandidarvi alle prossime elezioni politiche. Ieri Renzi era a Milano, nella sede del Pd in via Lepetit, dove ad attenderlo c’erano esponenti della direzione metropolitana, consiglieri e assessori, insieme all’ex sottosegretario a Palazzo Chigi Tommaso Nannicini.

 

Milano non è una città qualsiasi per il renzismo; nel capoluogo lombardo ha vinto il “suo” candidato, Beppe Sala. A Milano poi il Sì al referendum ha vinto con il con il 51,13 per cento. Non sarà l’unico appuntamento; Renzi farà il giro delle federazioni anche nel resto d’Italia. In più, c’è la questione Pisapia. I renziani guardano con interesse all’ex sindaco di Milano. Bisogna capire però se c’è corrispondenza d’amorosi sensi, visto che i paletti di Pisapia sono parecchi (per esempio non ci sono spazi per alleanze con il centrodestra, il che significa niente governo con Alfano o con Berlusconi). Intanto però c’è un dialogo aperto ormai da tempo fra Renzi e l’avvocato penalista, tant’è che la settimana scorsa i due si sono incontrati a Milano. Nel Pd sono ore intense di conciliaboli e riunioni. I Giovani Turchi ieri si sono ritrovati per scongiurare, intanto, la propria scissione. “Le correnti non si scindono, semmai si riarticolano: la scissione che ci preoccupa è quella che potrebbe vedere la rottura del Partito”, dice Orlando dopo il frontale con Matteo Orfini.

 

I “turchi” propongono dunque non una conferenza programmatica, come quella lanciata (e bocciata) dal ministro in Direzione, che avrebbe allungato i tempi del congresso, ma un’assemblea programmatica tra l’avvio della raccolta delle firme ed il termine della presentazione delle candidature, una ventina di giorni. Un’iniziativa condivisa anche da Maurizio Martina e da Piero Fassino, entrambi tutt’altro che ostili a Renzi. “Proponiamo che la Convenzione nazionale – prevista dalle attuali regole del Congresso dopo la fase dei congressi di circolo dedicata agli iscritti e prima del coinvolgimento degli elettori – divenga pienamente Convenzione Programmatica consentendoci così di rafforzare ulteriormente il nostro comune impegno di analisi, confronto e discussione”. Ma la minoranza sembra procedere spedita per il proprio cammino. Michele Emiliano e Roberto Speranza sabato andranno all’assemblea di Enrico Rossi organizzata al Teatro Vittoria. “L’ultima direzione nazionale del Partito democratico – dicono i tre candidati al congresso – è stata animata da un dibattito ricco e plurale. Le conclusioni del segretario non hanno rappresentato questa ricchezza di posizioni e visioni, che ci caratterizza come la più grande comunità civile e politica del Paese. L’esito della direzione è stato profondamente deludente e ha sancito la trasformazione del Partito Democratico nel Partito di Renzi, un partito personale e leaderistico che stravolge l’impianto identitario del Pd e il suo pluralismo”. Scissione o no, forse è ora di tirare fuori di nuovo i popcorn. 

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.