Il ministro dell'Interno Marco Minniti (Foto LaPresse)

“La sicurezza è di sinistra”

Salvatore Merlo

L’accordo libico e gli incontri con i capi tribù, la forza che va dispiegata “ma anche spiegata”, e poi la scissione del Pd, D’Alema e Renzi. Una mattinata con Minniti

Roma. “Chiederei a tutti un supplemento di profondità. Passaggi di questa rilevanza hanno bisogno di una loro solennità. Anche il dramma dev’essere solenne”. Ed evidentemente il dibattito sulla scissione del Pd, con tutta la congerie dei tormenti di Bersani e di Speranza, gli ultimatum e gli ultimi appelli, con i rancori di D’Alema e le spavalderie di Renzi che si intrecciano alle ambizioni di Emiliano e di Rossi, non lo sono, non sono affatto solenni. “Ci sono momenti in cui le pur importanti storie personali hanno bisogno di misurarsi con un progetto politico. Ci sono momenti in cui il gruppo dirigente, di cui anche la minoranza fa parte, deve dimostrare di essere tale. È difficile convincersi che un’esperienza come quella del Pd si possa interrompere perché non si è d’accordo sul percorso congressuale. La storia della sinistra italiana è scandita dalle date delle scissioni, mentre il Pd, quando nacque, fu un’altra cosa, non solo l’accordarsi dell’Italia con il riformismo europeo. Fu l’unione del riformismo cattolico e di sinistra. La parola ‘unire’, in quei giorni, non era ‘una’ parola, ma ‘la’ parola. Prima di andare oltre dobbiamo tutti pensarci cento volte”.

 

E ministro dell’Interno, già dalemiano, ex funzionario del Pci – “sono stato responsabile di zona della piana di Gioia Tauro a ventidue anni, in un periodo in cui, nel 1980, un mio caro amico, Giuseppe Valarioti, fu ucciso dalla ‘Ndrangheta” –  Marco Minniti dice di non amare la ribalta del conflitto politico, che rifugge da anni. Non va in televisione e non rilascia interviste, “non ho Twitter né Facebook”. È amico di Matteo Renzi (“ma non sono mai stato in cordata”), e quando infatti gli si ricordano i suoi trascorsi dalemiani – lo chiamavano Lothar, dal nome dell’assistente calvo del fumetto Mandrake – forse un po’ si increspa. Mai fatto parte di uno staff, dice. “Ero un dirigente politico, meno importante di D’Alema, certo, ma ero un dirigente del partito. Non un dipendente. Con lui siamo stati in grande sintonia in una fase importante della nostra formazione. Con lui entrai per la prima volta al governo, nel 1998. Sono passati ormai tanti anni”. E a Palazzo Chigi, quella prima volta che ci entrò, nel suo ufficio ebbe la scrivania di Mussolini, quella che il Duce usava da ministro degli Esteri. “Una scrivania spartana”, ricorda, sulla quale tuttavia, lui, uomo di sinistra, lavorava con grande ironia. “Un giorno vennero a trovarmi Giuliano Ferrara e Stefano Di Michele. Alla fine esclamarono: ‘Possiamo proprio dire che questa scrivania è in buone mani!’”.

 

E nel centrosinistra, Minniti è forse un caso unico. È l’uomo che più di tutti è stato al governo in questi anni: sottosegretario alla presidenza del Consiglio dal 1998 al 2000, poi sottosegretario alla Difesa fino al 2001, poi viceministro dell’Interno dal 2006 al 2008, poi sottosegretario con delega ai servizi segreti dal 2013 al 2016, con Renzi, “e solo adesso ministro, per la prima volta, dopo vent’anni. E forse proprio perché sono un solista”. Un solista o un solitario? Uno che non si mette in “cordata”, ripete lui, uno che non fa “vita di corrente”, insiste appena può. E dev’essere forse per questo che, quanto al D’Alema scissionista di oggi, al suo (ex?) amico che a lungo è stato capo di una corrente solida e potente, poche parole si possono attribuire a Minniti, e piuttosto chiare: “Il punto cruciale è che un partito non è la somma di persone né di ambizioni personali. Stiamo parlando del Pd, di un pezzo di storia del nostro paese”. E Renzi? “È un riformista vero, una straordinaria risorsa da tenere a cuore. Al netto dei suoi errori, che d’altra parte lui stesso ha riconosciuto”.

 

La sua ampia stanza al Viminale, con una sbrillucicante tappezzeria di ramage d’oro assortiti, è circoscritta dalle foto dei suoi quattro cani e da una moltitudine di modellini di aeroplani, jet da combattimento di ogni foggia e colore, riproduzioni su scala, professionali, “volevo fare il pilota militare da ragazzo, ma mia madre si oppose. Poi si è ricreduta quando mi iscrissi al Pci”. Dunque comunista per ribellione prima di tutto nei confronti della famiglia, del padre ufficiale di aeronautica, severo e tutto d’un pezzo (“aveva otto fratelli e tre sorelle, i maschi erano tutti militari come lui. Quando mi impedirono di fare l’accademia aeronautica, mi iscrissi a filosofia perché mio padre la considerava la cosa più inutile del mondo”). E fu così che a poco più di diciotto anni passò da un tipo di autoritarismo a un altro genere di autoritarismo. Da quello paterno a quello del partito chiesa, che si era destalinizzato non da troppi anni in realtà. Così in fondo, forse, cambiava poco. Casa e partito, partito e casa. Tutta una disciplina. “Una volta mi lamentai con mia madre per l’eccessiva severità di papà, lui allora un po’ se ne ebbe a male, e mi disse una cosa di questo tipo: ‘Ma se ti permetto persino di darmi del tu!’”.

 

E dunque Minniti è di sinistra, ma di destra, dice per esempio Avvenire, che lo critica per il suo progetto di sicurezza nelle città, il suo famoso decreto, che non piace ai cattolici ma nemmeno alla sinistra-sinistra. “Sicurezza non è una parola che deve essere lasciata alla destra”, dice invece lui, “sicurezza non è solo ordine pubblico. Il cuore delle politiche di sicurezza è garantire il bene comune, significa permettere ai cittadini di vivere la democrazia. Cosa c’è di più di sinistra di questo? Il controllo del territorio non sono soltanto le macchine della polizia, ma anche l’arredo urbano, la coesione sociale, l’illuminazione, l’urbanistica… Una piazza tu non la rendi sicura soltanto dispiegando qualche camionetta della polizia”. E l’argomento si vede che lo riscalda, accelera il suo metabolismo di uomo compatto e quasi ulivigno, “tutelare il principio di sicurezza significa tutelare i più deboli. Guardate che i ricchi hanno strumenti propri per difendersi, strumenti che i poveri non hanno. Sicurezza è libertà. Non c’è sicurezza se non viene garantita la libertà dei singoli, ma è altrettanto vero che non c’è libertà senza sicurezza”.

 

E un po’ Minniti crede legittimamente d’incarnare una svolta culturale nel suo campo politico, quell’idea che fa dell’ordine pubblico, a sinistra, sempre materia di accademia sociologica, un ordine di pensiero all’interno del quale purtroppo ancora prevale l’idea che l’immondizia sociale sia un prodotto del capitalismo cattivo, che i banditi siano rivoluzionari mancati, e che l’immigrazione sia solo materia di carità, e non la sfida del secolo. Così Minniti rovescia l’identità veltroniana del multiculturalismo, la stagione che spinse Enrico Letta a nominare Cecile Kyenge ministro. “Sicurezza è libertà”, ripete. E questo ministro di sinistra sembra allora voler dire che la sicurezza è bipartisan, come l’acqua e i binari del tram. Ecco allora l’accordo con la Libia sull’immigrazione, ecco i patti con l’Islam italiano perché le moschee siano registrate, perché gli imam predichino in italiano. “C’è una evidente correlazione tra terrorismo e mancata integrazione. Sull’immigrazione si giocano gli equilibri dentro le democrazie occidentali nei prossimi anni. Non è un tema di ordine pubblico, né può essere affrontato con soluzioni facili, spot”, che siano quelle dell’accoglienza spensierata o quelle torve del filo spinato. “La visione riformista deve essere insieme complessa e popolare. Riformismo, secondo me, significa avere una visione, e intorno a questa visione costruire un consenso. Fuori da questo campo ci sono i fascismi e i populismi”.

 

Minniti insomma vorrebbe non solo dispiegare la forza, ma spiegarla. Ed è un’idea che demistifica gli espedienti e forse anche i falsi intendimenti, un’idea che rivela: l’emergenza dell’immigrazione costringe a difendersi, sempre e comunque a stare in campo, ad abbandonare gli spalti, a proteggere persino il diritto che ti dà il tuo paese a coltivare l’idea dell’accoglienza e della solidarietà.

 

Così, nei suoi primi sessanta giorni da ministro dell’Interno, forse si scorge il filo di un progetto, di una “visione”, appunto. E covata in molti anni, verrebbe da dire, spesi un po’ nell’ombra, nei reparti di sicurezza dello stato (“ho passato anni importanti come autorità politica dei servizi segreti, un lavoro nel quale il massimo successo rivendicabile è quello che nessuno sa che cosa hai fatto”). Scrive il Times di ieri: “L’Italia ha convocato a Roma dieci sindaci dalle città del sud della Libia per convincerli a bloccare le decine di migliaia di migranti africani che provano a entrare in Europa”. Lunedì scorso i sindaci della Libia in effetti si trovavano a Roma, proprio nella stanza a fianco a quella che al Viminale fa da studio del Ministro dell’Interno. Se esistesse una foto sul cellulare di Minniti – ma non esiste – lo mostrerebbe sorridente, e circondato da volti che sembrano usciti da un romanzo di Kipling, o di Konrad. E a dicembre, al Viminale, avevano fatto il loro ingresso anche quei capì tribù che in realtà governano il paese: Tuareg, Sulimani, Tebù, gente che si è fatta la guerra per anni, tutti a Roma a stipulare un accordo di cui Minniti riconosce intrinseche fragilità: “Ma quando pensavamo di farlo nessuno credeva che si potesse portarlo a compimento. Il traffico di esseri umani oggi è la prima industria armata della Libia, e la forza dell’accordo sta nel fatto che pezzi della società libica si sono convinti a fermare i trafficanti. E non è poca cosa. Vedremo se funzionerà, siamo impegnati su questo”.

 

E chissà se è vero, come dicono, che secondo Minniti in Libia in realtà non conta nessuno, ma solo i capi milizia, quegli uomini dalle facce cotte dal sole con i quali bisogna discutere e contrattare, all’ombra degli accordi con il governo di unità nazionale, quello riconosciuto, e che tuttavia governa ben poco nel paese martoriato dalla guerra civile. Quando ne parla, il ministro dell’Interno lascia capire che “l’Italia è dentro il paese”, capillarmente, con i suoi apparati di sicurezza. “La rotta balcanica dell’immigrazione è stata bloccata dagli accordi dell’Unione europea con la Turchia. Nel Mediterraneo invece l’accordo è bilaterale. Ed un accordo italiano”, un patto formale con il governo Serraj, e un patto sostanziale con le tribù. E l’Europa? L’Europa non c’è, latita, s’indebolisce, manifesta la sua assenza nel Mediterraneo. “Questo accordo ha portato l’Europa tutta a misurarsi con il tema del Mediterraneo centrale”, pensa invece Minniti. “Un modo di difendere le entità sovra nazionali è quello di avere delle forti agende nazionali. L’iniziativa nazionale rafforza il meccanismo di integrazione. E infatti il vertice di Malta tra i capi di stato e di governo dell’Unione, il 4 febbraio, è stato reso più forte dal nostro accordo con la Libia” e le sue tribù. Le uniche che sembrano interessarlo, “perché a quelle del partito non prendo parte”, dice, proprio mentre il Pd è gruppi tribali che si divide e si moltiplica, “ma senza solennità”, in preda all’idea confusa che la scissione e la guerra intestina siano l’unica salvezza, “mentre in realtà non esistono i grandi lavacri dai quali si riparte”, perché quando una storia finisce si spegne la luce. E qualcuno finisce che resta al buio.

 

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.