Matteo Renzi al Lingotto (foto LaPresse)

Perché Renzi può avere un futuro solo se non penserà più all'Elefante populista

Claudio Cerasa

Chi vuole opporsi al format di successo messo in scena dai leader anti sistema deve osare anche a rischio di essere fischiato nei talk-show. Cosa ci dice il modello Sanders-Hamon sulla sfida (anche italiana) tra chiusura e apertura

In una bella e sincera intervista rilasciata sabato scorso al Guardian, giornale progressista inglese giustamente interessato a decifrare le nuove difficili coordinate della sinistra mondiale, l’ex sfidante di Hillary Clinton alle primarie democratiche, Bernie Sanders, ha provato a rispondere ad alcune domande relative a un tema centrale dei nostri giorni: per non essere brutalmente travolti dell’internazionale del trumpismo, che direzione deve prendere il campo progressista mondiale? Sanders fa parte di quella scuola di pensiero che considera pericoloso non tanto l’approccio economico del presidente americano (chiusura vs apertura) quanto la singola persona di Trump e di fronte alle domande del giornalista del Guardian spiega bene la sua posizione – che è utile da mettere a fuoco per tornare poi in Europa e ovviamente anche in Italia. Trump è un problema, sostiene Sanders, perché è un pericolosissimo bugiardo che però non dice cose fuori dal mondo, soprattutto quando parla di globalizzazione: “La globalizzazione – dice Sanders – ha migliorato solo le vite delle persone che si riuniscono a Davos e ha portato benefici esclusivamente alla classe dirigente economica che governa il mondo. Trump ha ragione quando dice che a

La globalizzazione dev’essere valutata per quello che è: ovvero non un male dei nostri tempi da ridimensionare a tutti i costi (chiusura) ma una straordinaria opportunità su cui investire per ridurre le diseguaglianze attraverso una maggiore apertura dei mercati, una più efficace concorrenza e una serie di politiche finalizzate a combattere la povertà e non la ricchezza

causa della globalizzazione l’America ha visto chiudere 60 mila fabbriche dal 2000 a oggi e ha registrato la perdita di milioni di posti di lavoro nel settore del manifatturiero a causa di politiche commerciali disastrose che hanno fatto la fortuna degli amministratori delegati delle grandi imprese a discapito dei lavoratori americani”.

Trump – conclude Bernie – ha raccolto il sostegno delle persone che non si sentono più rappresentate dalle élite. Ed è vero che élite economiche e politiche dimenticano da troppo tempo gli ultimi”. Se mai fossero necessarie ulteriori conferme, le parole di Bernie Sanders indicano una chiara direzione suggerita alla sinistra mondiale, che potrebbe essere così sintetizzata: cari compagni, non perdiamo la calma, proviamo a dirci la verità e ammettiamo che il problema dei populisti iscritti al partito della chiusura non è la loro agenda economica, ma è solo la loro impresentabilità politica. E per questo è bene muoversi rapidamente per evitare che gli elettori insoddisfatti della globalizzazione vengano rappresentati solo dai teorici del sovranismo nazionalista. Detto in altre parole: per sconfiggere fenomeni come il trumpismo, bisogna togliere di mezzo i soggetti e non gli oggetti del populismo; e per fare questo occorre giocare sullo stesso terreno oggi presidiato con successo dal populismo nazionalista di destra. Le parole di Bernie Sanders vanno lette con attenzione anche per capire bene il senso di una partita politica che si sta giocando oggi in Europa e in primo luogo in Francia. Il problema è chiaro e le elezioni francesi ci aiuteranno a capire se la linea Sanders (già perdente in America, ma trasformata misteriosamente dalla sinistra Tafazzi nel simbolo di un improbabile riscatto futuro) aiuta o ostacola il cammino dei populisti come Marine Le Pen.

 

Sintesi della questione: per contenere l’ondata anti sistema è bene adottare un approccio totalmente opposto, dove l’apertura viene contrapposta alla chiusura, come stanno provando a fare Fillon e Macron, o è bene invece seguire il modello Sanders, o se volete il modello Corbyn, e affrontare così i populisti facendo loro concorrenza sui loro stessi temi (no alla globalizzazione), come sta facendo sempre in Francia il socialista Benoît Hamon?

 

La nostra idea ormai la conoscete: per affrontare la politica della post verità, di cui i populisti sono interpreti sinceri, occorre giocare su un altro terreno di gioco. E se si vogliono conquistare i voti dei potenziali elettori dei movimenti anti sistema non lo si deve fare dicendo loro ciò che vogliono sentirsi dire, ma lo si deve fare provando a convincerli uno per uno della bontà delle proprie idee (fatti vs post verità) e portandoli così a poco a poco sulla strada di un riformismo in cui la globalizzazione viene valutata per quello che è: ovvero non un male dei nostri tempi da ridimensionare a tutti i costi (chiusura) ma una straordinaria opportunità su cui investire per ridurre le diseguaglianze attraverso una maggiore apertura dei mercati, una più efficace concorrenza e una serie di politiche finalizzate a combattere la povertà e non la ricchezza.

 

In Francia, Macron (indipendente ex socialista) e Fillon (centrodestra) stanno tentando questa strada e se i sondaggi francesi (che però avevano già toppato su Juppé, dato a lungo in vantaggio su Fillon) sono meno ingannevoli di quelli italiani, tutto lascia credere che una sfida Macron o Fillon contro Le Pen possa essere più difficile, per la Le Pen, rispetto a una sfida contro il sandersiano Hamon. Sul Figaro di sabato scorso un famoso parlamentare europeo di cultura popolar-conservatrice, Jean-Louis Bourlanges, ha riconosciuto che la candidatura di Macron ha stravolto in positivo cinquant’anni di polarizzazione del sistema francese (e non solo) creando un nuovo paradigma politico che potrebbe aiutare i leader europei, anche del futuro, a fare una cosa che oggi riesce bene soltanto ai politici iscritti nel campo del partito della chiusura: avere un format alternativo a quello un po’ cialtrone ma di successo adottato dal fronte sovranista e nazionalista.

 

Corrado Formigli, conduttore di “Piazzapulita”, dice il vero quando ricorda, rispondendo a un bell’articolo del nostro David Allegranti, che nei talk-show l’applausometro premia in modo naturale i Salvini, i grillini e le Meloni. Ma il punto è proprio questo: chi vuole opporsi a quel format di successo messo in scena dai leader populisti di tutto il mondo non può pensare di raccogliere applausi rincorrendo i populisti ma deve farlo osando (Macron, per esempio, va in piazza con le bandiere europee), cercando un nuovo format e sperimentando nuovi paradigmi anche a costo di raccogliere qualche fischio nell’elettorato indignato. Anni fa – era il 2006 – un linguista americano di nome George Lakoff scrisse un libro di successo per spiegare la ragione per cui i democratici non riuscivano a dettare l’agenda negli Stati Uniti e in un libriccino chiamato “Non pensare all’Elefante” sostenne che i conservatori, all’epoca, riuscirono a monopolizzare l’agenda politica americana impossessandosi dei “frame” all’interno dei quali maturavano i dibattiti politici. Il suggerimento offerto da Lakoff ai democratici fu più o meno questo: cari democratici, quando provate a dettare l’agenda fatelo senza pensare all’agenda dell’elefante, ovvero a quella dei conservatori. Lo stesso si potrebbe dire oggi a quei leader (oltre a Macron c’è anche Renzi) che provano a opporsi all’agenda nazionalista cercando di adottare un nuovo e difficile format di successo: per sconfiggere i vostri nemici non pensate a loro ma pensate a voi, alla vostra agenda e provate a imporla senza scopiazzare le parole d’ordine (casta, vitalizi, reddito di cittadinanza) usate dai vostri avversari.

 

Nessuno ha la Verità in tasca, specie in una fase politica in continuo movimento come quella che viviamo oggi, ma dire che i populisti si sfidano e non si rincorrono dovrebbe essere l’abc di una politica intenzionata a trasformare le forze anti sistema in una piccola parentesi e non nella vera storia dei nostri giorni.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.