“L'invisibile Martina”
Fassiniano, veltroniano, bersaniano, ora renziano in ticket. Chi è il numero due di Renzi
Roma. Matteo Renzi usa i numeri due, veri o presunti, come camicie: li indossa e poi li cambia. La lista è lunga: da Pippo Civati a Graziano Delrio, a Matteo Richetti. Sono anche dei testimonial, servono a raggiungere un pubblico elettorale che Renzi non può toccare, rappresentativi dell’umore e della fase politica del momento: ora che l’ex presidente del Consiglio ha messo da parte la fase rutilante, quella jovanottiana, s’è scelto per il ticket congressuale il bergamasco Maurizio Martina, l’alleato fedele e non capriccioso, il funzionario di partito che sta dove lo metti. E ci sta nonostante nella sua lunga carriera politica (è del 1978) ci siano stati successi (l’Expo) ma anche significative sconfitte. La vittoria più famosa cui ha partecipato, che lo fa assurgere al rango di stratega, è quella di Milano, da sempre un modello per Renzi, che oggi aveva bisogno di uno che dichiarasse nel curriculum di aver letto e sottolineato tutto Gramsci. D’altronde la sfida è a sinistra con Andrea Orlando, che si vuole fare portavoce di una tradizione, che poi è la stessa di Martina, quella a filiera corta Pci-Pds-Ds.
Il ministro dell’Agricoltura, ex sottosegretario alle Politiche agricole del governo Letta, viene da lì; è un funzionario di partito, nato a Calcinate, provincia di Bergamo, allievo politico di Filippo Penati e segretario regionale del Pd da quando Veltroni era leader. Nessuno, tra i lombardi, ricorda spigolature: Martina – “gran lavoratore, alle 8 di mattina è operativo” – è uno che è sempre al posto giusto al momento giusto, senza farsi troppo notare. Tant’è che nel Pd lo chiamano ‘l’invisibile Martina’”. “E’ mimetico, riesce a dare sicurezza al leader di turno”. Esordisce come fassiniano entrando, all’inizio del Duemila, nella segreteria nazionale della Sinistra Giovanile, poi è veltroniano quando c’è da essere veltroniano, esprime qualche perplessità per la scelta di Franceschini – il “vicedisastro” come lo chiamò Renzi – salvo entrare in segreteria quando l’attuale ministro della Cultura diventa segretario, dunque è bersaniano al congresso del 2009, cuperliano nel 2013, infine folgorato sulla via di Rignano come altri “compagni” al punto di fondare una corrente di sinistra per il Sì al referendum (corrente il cui uomo macchina è Matteo Mauri).
Nessuno ricorda soprannomi particolari, al massimo lo chiamano “il Martina”, come si fa al liceo o in questura, ma si tratta di un lombardismo. Nel 2010 appoggiò Stefano Boeri alle primarie del centrosinistra, vinte poi da un esterno al Pd, Pisapia. Fu una disfatta per i Democratici, che organizzano le primarie per farle vincere agli altri; Martina si dimise ma poi ritirò le dimissioni. Sempre nel 2010, quando Martina era segretario regionale, il centrosinistra perse contro Roberto Formigoni, che riuscì a surclassare Penati, lasciandolo inchiodato a un misero 33 per cento. Nel 2013, nonostante i guai giudiziari che avrebbero tramortito chiunque, il centrodestra riuscì, con Maroni, a vincere di nuovo. Ma il Martina è sempre lì. Essere di sinistra in questi anni non lo ha condannato al settarismo, visto che il ministro, nato in una famiglia democristiana, ha mantenuto ottimi rapporti con i cattolici. A segnarlo fu l’esordio in politica: a 21 anni – 1999 – fu eletto nel consiglio comunale di Mornico al Serio, nella lista civica dell’allora sindaco Rossano Breno, poi presidente della Compagnia delle Opere di Bergamo, nientemeno che il braccio economico di Cl “E qualcuno pensava che fosse diventato ciellino pure lui”, motteggiano i lombardi.