Paolo Gentiloni e Matteo Renzi (foto LaPresse)

Renzi si smarca sui voucher e lancia segnali contro il patto Gentiloni

David Allegranti

L'ex premier non apprezza la linea del dialogo con tutti, per questo fa di tutto per smarcarsi dal suo successore

Roma. Il governo abolisce i voucher e Matteo Renzi parla di vaccini. “Morbillo. Nei primi mesi del 2017, + 230 per cento. Meno propaganda, per favore. Sì alla scienza, sì ai vaccini”. In Senato si sancisce – via salvataggio di Augusto Minzolini – il nuovo patto fra Forza Italia e Pd e Matteo Renzi si fa fotografare ad Amatrice insieme al sindaco Sergio Pirozzi. Che cosa succede? Semplice, spiegano i collaboratori dell’ex segretario del Pd: Renzi vuole smarcarsi dal governo e dal suo successore Paolo Gentiloni.

 

I rapporti fra i due sono buoni, il problema è la linea politica. L’ex segretario del Pd non apprezza molto (eufemismo) la linea del dialogo con tutti, quella del “patto Gentiloni”. È però, ragionano i renziani, naturale conseguenza della vittoria del No al referendum del 4 dicembre. Ora c’è appunto un governo e un parlamento che fanno cose diverse da quelle che avrebbe voluto realizzare Renzi. Le vicende degli ultimi giorni sono particolarmente emblematiche, secondo i renziani, per i quali non ci dovrebbe essere nessun cedimento alla Cgil, tant’è che se fosse per Renzi i voucher sarebbero rimasti (anche se viene il legittimo sospetto che in questo modo viene evitato un referendum molto pericoloso per il consenso del Pd). Con Forza Italia, poi, non vorrebbe accordi su niente, almeno in questa fase, anche perché espongono il Pd agli attacchi del M5s (ma è paradossale, visto che il patto del Nazareno ha consentito a Renzi di governare serenamente nella fase iniziale del suo mandato).

 

C’è poi la questione delle banche. Renzi ha detto di volere una commissione d’inchiesta. Richiesta che però è stata respinta dal capogruppo del Pd al Senato Luigi Zanda, per il quale “c’è il rischio che la democrazia italiana venga egemonizzata culturalmente dai grillini, dal loro populismo antieuropeo e giustizialista”. In campagna elettorale una commissione d’inchiesta, ha detto Zanda a Repubblica, “verrebbe usata per regolare conti politici e non per cercare la verità e proteggere il risparmio”. Altro punto di differenza riguarda l’Europa, come già si era capito al Lingotto lo scorso fine settimana, quando Renzi ha recuperato un vecchio cavallo di battaglia prendendosela con i “tecnocrati europei” e sottolineando la debolezza della politica italiana nei loro confronti: “Per anni una parte delle elite dell’Italia ha usato l’Europa per convincere gli italiani a fare riforme che altrimenti non avrebbero voluto fare. Ci sono stati premier che andavano in Europa con la giustificazione, come a scuola, premier tecnici animati da sentimento antipatriottico e antitaliano. Dicevano: ‘Ce lo chiede l’Europa’. Quella stagione ha migliorato forse i conti pubblici, forse. Ma ha disintegrato l’idea di Europa dei padri fondatori. Alla celebrazione del Trattato di Roma il 25 marzo dobbiamo mettere da parte quella stagione!”, ha gridato dal palco del Lingotto.

 

Gentiloni appare piuttosto distante da questa impostazione barricadera di Renzi, che mostra segni d’insofferenza anche per la lentezza del Parlamento sulla legge elettorale. L’ex segretario del Pd è convinto che arriveremo alla fine dell’anno senza avere un nuovo sistema elettorale. Infine, la giustizia. Su InCammino.it, sito della campagna elettorale di Renzi, viene dato spazio a una robusta critica alla riforma del processo penale voluta da Andrea Orlando – ministro del governo Renzi, poi di Gentiloni, e oggi anche candidato al congresso del Pd. “Anziché impegnarsi sul fronte delle risorse e dei gap di produttività tra i diversi tribunali, in un sistema a macchia di leopardo, il governo Gentiloni annuncia la fiducia su un provvedimento che estende fino a vent’anni i termini per l’estinzione del procedimento”. Insomma, si farebbe prima a dire su cosa Renzi e Gentiloni sono d’accordo, a parte l’amicizia.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.