Ricordare Alfredo Reichlin rispettando il suo messaggio
Addio allo storico dirigente del Pci. Il punto forse più rilevante della sua lezione, ma anche il più trascurato: la concezione dell’incompiutezza dell’unità nazionale
Alfredo Reichlin, scomparso ieri dopo una lunga partecipazione da protagonista al confronto politico, ha avuto il pregio di comprendere la profondità delle contraddizioni che attraversano la società italiana, ma ha poi quasi sempre indicato la soluzione in prospettive palingenetiche delle quali si fatica a intendere quali possano essere le forze motrici. Fu tra i sostenitori del “nuovo modello di sviluppo” che, già negli anni Sessanta considerava la risposta al pericolo di “integrazione” della classe operaia nel gorgo “neocapitalistico”. Stava con Pietro Ingrao contro Giorgio Amendola, che invece proponeva una collaborazione con i socialisti per una politica di riforme strutturali. La sua analisi delle contraddizioni del capitalismo, ma anche dell’insufficienza delle risposte della sinistra, è stata un ingrediente della riflessione post-comunista, che lo portò a promuovere il “partito della Nazione”, salvo poi condannare l’interpretazione concreta data da Matteo Renzi a quella intuizione. Il punto forse più rilevante della sua lezione, ma anche il più trascurato, era la concezione dell’incompiutezza dell’unità nazionale. Ancora nel suo ultimo articolo scrive di essere “arrivato alla conclusione che è arrivato il momento di ripensare gli equilibri fondamentali del paese, la sua architettura dopo l’unità, quando l’Italia non era una nazione. Fare in sostanza ciò che, nel bene o nel male fece la destra storica e fece l’antifascismo con le grandi riforme come quella agraria e lo statuto dei lavoratori”.
Di quel riformismo che originò quelle trasformazioni, però, Reichlin fu sempre acerrimo avversario, teso com’era a sottolinearne i limiti di incompiutezza, che non soddisfa il suo anelito a forme palingenetiche di trasformazione politica. Però, a differenza di tanti altri esponenti della tradizione comunista, ha cercato di fare i conti con il crollo del sistema sovietico, che coinvolgeva tanti dei presupposti ideologici della sua generazione. Anche in questo caso la sua capacità di analisi critica e autocritica ha mostrato profondità, in contrasto con la prassi trasformistica di chi gestì quel passaggio epocale con preoccupazioni essenzialmente tattiche. Il suo “Addio al comunismo” è stato sincero e sofferto, la sua lettura della nuova articolazione sociale si avvicina (con quasi un secolo di ritardo) a quello del “revisionista” Eduard Bernstein, ma il pragmatismo delle socialdemocrazie continuava a apparirgli troppo contingente, troppo lontano da quell’utopia un po’ millenaristica che in fondo ha ispirato sempre il suo pensiero.
Ricordarlo oggi significa rispettare il suo messaggio, senza stiracchiarlo a proprio vantaggio, com’è probabile faranno i suoi presunti eredi, nel Partito democratico e nelle varie formazioni alla sua sinistra. Paradossalmente, invece, il nucleo tuttora valido della sua intuizione, quello sull’incompiutezza dell’unità nazionale, rappresenta uno stimolo per tutte le forze politiche e culturali, come lascia intendere il suo riconoscimento del ruolo esercitato anche dalla “destra storica”, segno di una lettura non banale e tutt’altro che propagandistica della vicenda italiana.