Ma che senso ha oggi Renzi?
L’apertura di Bersani al “centro” grillino dimostra che all’Italia serve una diga. Appunti per non toppare
Almeno un merito Bersani ce l’ha: ha chiarito i termini delle divisioni del Pd. Aveva ragione Biagio De Giovanni quando, all’assemblea del Lingotto, invitava a smettere di banalizzare la scissione, a liquidarla come un tema di incomunicabilià tra Un Renzi despota e contendenti rottamati. Pampuglie. Ipocrisia. Il Pd, confessa Bersani, è diviso da una radicale difformità strategica, di analisi e di prospettiva politica: il giudizio sul populismo e sui Cinque stelle. Dietro il piccolo scisma e le colorazioni caricaturali, melodrammatiche e macchiettistiche c’è una sostanza politica: un settore della politica italiana sdogana l’ipotesi di una coalizione con Grillo e il suo movimento. Finora solo dalle parti dell’estrema destra, sovranista e leghista, si era vagheggiato di questa possibilità. Bersani dice, esplicitamente, che nel nuovo sistema proporzionale, che rende indispensabili le coalizioni, ad una prospettiva di grandi intese loro, gli scissionisti, anteporranno l’alleanza con Grillo. Così il fantasma dell’Italia come unico paese europeo che potrebbe sperimentare il populismo al governo si materializza.
È, in ogni caso, quello di Bersani un atto di chiarezza: da un lato, illumina il motivo, sinora criptico, della lunga opposizione di una parte della sinistra al governo Renzi, della scelta del No e, infine, della decisione di dividere il Pd; dall’altro, costringe il Pd e l’area moderata a prendere atto di una realtà: i Cinque stelle possono contare su un potere di coalizione, il loro avvento al governo fa parte delle cose possibili. Si potrebbe recriminare, ormai sarebbe vano, sulla tragica distopia di quei settori e personalità, anche riformiste e democratiche, che hanno facilitato la liquidazione dell’Italicum per allontanare, a loro dire, il pericolo dei Cinque stelle. Non avevano messo in conto il voltafaccia della sinistra degli ex. Quella di Bersani è, intanto, una vera anomalia. In Europa ciò che resta della sinistra storica, di governo e socialista si colloca, chiaramente, in un “campo repubblicano” ed europeista che punta a sconfiggere e rendere minoritaria la minaccia populista. Solo in Italia no. In Europa la tendenza politica è chiara: c’è' una reazione “repubblicana” al populismo che spinge alla coalizione delle famiglie politiche costitutive dell’Europa (liberali, popolari, socialisti). In Italia è l’opposto. In Europa si delinea una sorta di nuovo bipolarismo nei fatti: da una parte il populismo, inteso come fenomeno dissolutivo, virus che dissolve il compromesso democratico di 70 anni di travagliata costruzione europea; dall’altra la convergenza e un ritorno di solidarietà, pur nella competizione, tra le famiglie politiche europeiste. Dice nulla che chiunque sia il vincitore delle elezioni tedesche e chiunque sia il candidato ( tranne forse il triste Hamon) che batta la Le Pen, in Europa tornerà un asse franco-tedesco come argine alla dissoluzione del continente e al pericolo populista? C’è un’Europa che si va attrezzando contro la disarticolazione, le Brexit, i pericoli di indebolimento tra Trump e Putin. Dove sarà l’Italia se passa l’ipotesi di Bersani? Saremmo destinati a diventare il problema per il nostro continente. È verso di noi che dovrebbero erigere muri. Sarebbe peggio, assai peggio della Brexit.
La profferta di Bersani si regge su un improvvido trucco semantico: l’attribuzione a Grillo della licenza di “nuovo centro”. Davvero sorprendente. Nel vecchissimo linguaggio di una vecchissima sinistra “centro” era la patente che si conferiva a potenziali alleati e che serviva a legittimare, agli occhi dei propri elettori, alleanze che tenevano fermo l’antagonismo al presunto vero nemico: la destra. Uno schema desunto e ideologico. Il centro non esiste. Esistono formazioni politiche, a vocazione maggioritaria, che si contendono il voto e si affermano quelle che riescono a coalizzare lo spettro più vasto oltre il tradizionale recinto di appartenenza. Di regola, in Europa, questo campo di contesa è ristretto a formazioni politiche, di centrodestra o centrosinistra, che accettano di competere in un quadro definito di valori e presupposti comuni. Senza reciproche eccessive demonizzazioni.
Bersani giganteggia (a livello di mucca) la formichina di destra e non sente la proboscide dell’elefante all’uscio di casa: il populismo. Lo blandisce, lo accarezza, lo minimizza. E quello sfascerà la casa. In Italia si stanno indebolendo e incrinando i pilastri che, in tutti i paesi europei, garantiscono la tenuta della casa: il centrodestra e il centrosinistra. Rischia di irrompere un soggetto politico che cambia lo schema di gioco. E’ indifferente se questo soggetto politico si caratterizza come portatore di tutti i difetti politici e i contenuti allarmanti che stanno determinando, in Europa, la reazione al populismo? Non c’è un po’ una sorta di “spirito di Monaco” ( del 1938) in questa sottovalutazione che una parte della società italiana fa del nuovismo populista? Ma davvero Bersani, come un novello piccolo Daladier, può colorare, benevolmente, come “centro” una piattaforma politica, quella dei Cinque stelle, che al lepenismo sulle issues di fondo (emigrazione, Europa, euro) aggiunge dosi esasperate di millanterie sulla decrescita, i sussidi universali, l’opposizione alle verità, di castronerie pericolose contro le evidenze scientifiche? Ma soprattutto è sul terreno democratico che l’appeasement col grillismo allarma. Secondo i capi della sinistra la positività e il valore dei Cinque stelle starebbero nella loro capacità di contenere e incanalare spinte, pulsioni, sfoghi. Minacce che altrimenti si manifesterebbero in forme ancora più estreme. Capisco l’approssimazione culturale di Emiliano. Ma Bersani?
Non trovo di meglio, per descrivere il singolare ragionamento stravolto di costoro che rispolverare una straordinaria e antica categoria di Antonio Gramsci: il sovversivismo. Nei fenomeni autoritari del 900 c’è, sempre e dappertutto, un movimento che incanala pulsioni, aspettative autoritarie e demagogiche, insopportazione dei riti democratici. Gramsci la chiamava la fase del “sovversivismo dal basso” che accompagna sempre ed è propedeutica al cambiamento della forma politica di stato e di governo, il “sovversivismo dall’alto”. In cui, continuava Gramsci, ha un peso decisivo la sottovalutazione, la complicità, l’inconsapevolezza, la passività di settori dello stato, del mondo economico, della politica. E degli intellettuali e facitori di opinione che balbettano incantati (e opportunisti) della “bellezza” del movimento, dello statu nascenti grillino, del giovanilismo generoso e inconsapevole che poi qualcuno porterà alla ragione. Sciocchezze che oggi leggete nelle interviste di Emiliano o negli editoriali del sociologo De Masi. Gramsci le liquidava, già un secolo fa, come la dialettica dell’avvento dei fascismi. Non è, naturalmente, il regime del ’22 che ci aspetta. Ma il sovversivismo populista congiura – visti i tic, le prove di governo, i propositi, le tecniche, le testimonianze e le promesse dell’agire grillino – a un’involuzione, perlomeno, oscura della dialettica democratica italiana.
La politica italiana, merito a Bersani di avercelo fatto capire, non è affatto tripolare, come scrivono politologi e opinionisti. È, ormai, classicamente bipolare. Da un lato c’è il probabile affermarsi, grazie al proporzionalismo, di una coalizione di governo dominata da un movimento, gramscianamente, “sovversivista”. Dall’altra, signori cari, c’è Renzi. Che piaccia o no. Alzi il dito chi, onestamente e fuor di propaganda, vede un’alternativa nella bislacca geografia politica di oggi. Forse persino suo malgrado, il Pd di un Renzi vincitore delle primarie diventerebbe, giocoforza, il polo alternativo al sovversivismo. Forse lo stesso Renzi andrebbe convinto di questa quasi oggettiva investitura, di questa funzione cui, quasi con la forza delle cose, la dialettica politica lo richiama. La smetta di preoccuparsi a battibeccare su “chi è di più e veramente di sinistra” o più giustizialista, o più fustigatore di politici e così via. Lasci a Orlando questa tematica minore e conformista. C’è altro all’ordine del giorno. Il pericolo populista richiede che si attrezzi, nella scena politica italiana, qualcosa che somigli al bipolarismo che, nell’emergenza antipopulista, caratterizza ormai la scena europea. Qualcosa che opponga ai nostri Wilders, Le Pen, Petry, Farage il profilo, le convinzioni e la combattività dei Macron, Rutte, Merkel, Schultz o Rajoy: l’alt al populismo al governo.
Con un discorso e una piattaforma, pur in regime proporzionale, rivolto a tutti. E per tutti si intende quella parte della nazione che vuole l’evoluzione tranquilla dell’Italia e teme le avventure populiste. Oggi, se ne convinca anche Renzi, il marchio di affidabilità (vincente dappertutto al di là dei nostri confini nazionali) è quello dell’Europa. E dei suoi marcatori: il modello di società aperta, liberale, moderna, innovativa, solidale e benevola. E delle sue istituzioni comuni: i parlamenti rappresentativi. Quello che, un giorno sì e l’altro pure, populismo e terrorismo, in singolare convergenza, fanno a gara ad azzoppare. Senza retorica: la posta in gioco è questa. E l’ordine del giorno.