In politica domina il pensiero unico intessuto di luoghi comuni
La politica si è arresa senza combattere al "luogocomunismo". Enormi fake news su giovani e lavoro, pensioni, voucher
Nel secolo scorso, la politica (non solo) italiana si misurò con una ideologia, seria e strutturata, come il comunismo, evitando che essa prendesse il sopravvento. In questo secolo, soprattutto nel suo secondo decennio, la politica si è arresa, quasi senza combattere, al “luogocomunismo’’ ovvero a un “pensiero unico’’ intessuto di luoghi comuni. Tante fake news: sui giovani e il lavoro, sulle pensioni, sui problemi economici e sociali (ma non solo: basti pensare alla bufala dei 60 miliardi inghiottiti dalla corruzione che vengono persino evocati come possibile copertura dei progetti di legge più fantasiosi). A volte, si usano i dati statistici per sparare pallottole contro la Croce rossa su cui viaggia l’Italia, senza contribuire alla soluzione dei problemi – anche seri e reali che vengono denunciati nei talk-show tafazzisti – limitandosi a incamminarli lungo un percorso privo di sbocchi, alla fine del quale non si troverà quel Campo dei miracoli che il Gatto e la Volpe promettono a Pinocchio, ma soltanto degli assassini. E soprattutto – il che è grave per chi pretende di fare informazione – senza compiere il minimo sforzo (salvo rare ed encomiabili eccezioni) per cercare e raccontare quanto sta dietro ai dati.
Cominciando dalle pensioni, sorvoliamo sul “maledetto imbroglio’’ degli esodati che pure sono stati i beniamini di forsennate campagne televisive contro la riforma Fornero, caricata, nel tempo, di un accumulo di deroghe che ne hanno ormai reso teorici gli effetti. Per dare libero sfogo alla mitologia di una generale condizione di indigenza degli anziani si è soliti: a) equivocare con il numero delle pensioni e quello dei pensionati (considerando tutte le tipologie previdenziali, assistenziali e indennitarie, rispettivamente 23 milioni di assegni a fronte di 16,2 milioni di percettori) ignorando così che vi sono 7 milioni di prestazioni che vengono redistribuite sulla medesima platea; b) fare la media del pollo tra i trattamenti di vecchiaia e anzianità e quelli di invalidità e reversibilità (pensioni il cui importo è ridotto); c) dimenticare (o fare finta di farlo) che per integrare le pensioni fino alla soglia del minimo legale occorrono (a proposito di solidarietà) 20 miliardi annui tratti dalla fiscalità generale. Nessuno chiede mai, ai percettori di trattamenti modesti intervistati, quale sia stata la loro storia lavorativa. Infatti, quanti percepiscono soltanto la pensione minima (501 euro per 13 mensilità) hanno anche degli altri redditi; altrimenti a loro si applicherebbero le maggiorazioni previste nell’ex milione di Silvio Berlusconi (ora pari a 637 euro mensili). Per fare ulteriore chiarezza: il numero delle pensioni fino a una volta il minimo sono più di 8 milioni, ma i pensionati sono poco più di 2,2 milioni (tanti, troppi, certamente, ma molti meno di quelli che si lascia credere). Pertanto, come è scritto nel pregevole Rapporto 2017 di Itinerari previdenziali “affermare che la metà delle pensioni è inferiore ai 500 euro al mese è sbagliato dal punto di vista tecnico ed è un ottimo argomento per incrementare elusione ed evasione fiscale’’. Aggiunge poi lo stesso Rapporto che, se calcolata sul numero totale delle prestazioni, l’ammontare della pensione media è pari a 12.136 euro annui; se invece si considerano i pensionati beneficiari, l’importo pro capite sale a 17.323 euro. I commentatori meno pauperistici si concentrano sul dato dei 750 euro mensili al di sotto del quale starebbero i due terzi delle prestazioni. Anche in questo caso, in aggiunta ai caveat già elencati, occorre ricordare che il livello medio delle pensioni di vecchiaia e anzianità è pari a 1.147 euro (1.455 gli uomini e 766 le donne). Se fosse specificata separatamente il valore medio delle pensioni di anzianità (il trattamento maschile e settentrionale, per eccellenza) vi sarebbero livelli superiori (pari a più del doppio dei canonici 750 euro). E, nello stock, le pensioni di anzianità sono in numero superiore di quelle di vecchiaia (5,8 milioni contro 5,6 milioni). Quest’ultimo trattamento (di vecchiaia) è percepito in larga maggioranza dalle lavoratrici perché in generale non sono in grado, per la loro collocazione nel mercato del lavoro o per il ricorso a periodi di contribuzione volontaria, di maturare un’anzianità lavorativa tale da poter accedere al pensionamento anticipato. Purtroppo, l’anzianità contributiva media che sta dietro alla pensione di vecchiaia di una lavoratrice è pari a 25,5 anni (poco più del requisito minimo richiesto). Ma non è responsabilità del sistema pensionistico. A meno che non si pensi che, quando si valica l’agognato confine della quiescenza, vi sia un giudice supremo che non calcola l’assegno dovuto secondo i meriti (l’attività svolta e i contributi versati), ma secondo i bisogni e le aspettative. Le considerazioni fino a ora svolte, poi, dimostrano quanto sarebbe dannosa per il sistema la proposta di Silvio Berlusconi di elevare a mille euro mensili i trattamenti. Ne verrebbe stimolata soltanto l’evasione e l’elusione contributiva.
La forza lavoro straniera
Passando, ora, al tema dell’occupazione, è davvero fallita la politica del governo Renzi? Senza dubbio – e questo è il vero limite – i nuovi posti di lavoro sono stati pagati a peso d’oro attraverso gli incentivi, ma i trend dell’occupazione hanno compiuto dei passi in avanti. Nonostante il ridimensionamento sul piano economico e normativo delle precedenti agevolazioni a favore delle assunzioni (o delle trasformazioni di rapporti di altro tipo) a tempo indeterminato, nel biennio 2015-2016, nel settore privato, si è avuto, come testimonia l’Inps, un saldo positivo di 968 mila rapporti di lavoro, a fronte di uno negativo di 135 mila unità nel biennio precedente (2013-2014). Quanto al saldo dei contratti a tempo indeterminato esso risulta positivo, nel biennio 2015-2016, per poco più di un milione di unità. In termini di flusso, la quota di assunzioni con contratti a tempo indeterminato è raddoppiata. Ma anche sul dramma della disoccupazione giovanile sarebbero opportune riflessioni meno banali. Innanzitutto occorrerebbe un maggior rigore nei numeri. Quando si dice che il 40 per cento dei giovani non ha lavoro, al denominatore non va inserito il totale della popolazione compresa tra i 15 e i 24 anni, ma soltanto la quota della c.d. forza lavoro (chi lavora e chi lo cerca). In questo modo la percentuale scende al 10-11 per cento del complesso delle coorti in quella fascia d’età. In valori assoluti circa 500 mila giovani: una situazione aggredibile con adeguate politiche che fino a ora sono state insufficienti (come il programma “Garanzia Giovani”). Il vero problema dell’Italia sono i Neet, coloro che non studiano più, che non hanno ancora un lavoro e che non si attivano a cercarlo (2,2 milioni circa). Alcuni anni or sono, tuttavia, l’agenzia Italia Lavoro curò un’analisi più approfondita del fenomeno dalla quale risultava che percentuali consistenti di Neet venivano classificate, rispetto alla propensione al lavoro, o come “indisponibili’’ oppure come “a disponibilità condizionata’’. Qui si affaccia un altro problema solitamente trascurato: quello del lavoro rifiutato (l’1 per cento del totale anche durante la crisi) che si coniuga da tempo con quelli dell’impiego degli stranieri e della disoccupazione giovanile. Per dipanare in modo più chiaro ed esplicito la matassa si può dire che vi sono molti posti di lavoro (manuale) che gli italiani rifiutano e che vengono necessariamente occupati dagli stranieri. A questo proposito anche dell’immigrazione viene fornita una rappresentazione ideologica e strumentale (sia da parte della destra che della sinistra cattocomunista) fatta solo di clandestini propensi a delinquere o di lavoratori stagionali delle baraccopoli del Mezzogiorno. Le iscrizioni di stranieri all’Inps, invece, sono testimoni dell’esistenza di una diversa realtà. Senza il lavoro degli stranieri, interi settori dell’economia (agricoltura, turismo, costruzioni, servizi alla persona, ma anche significativi comparti dell’industria manifatturiera) non sarebbero in grado di funzionare.
E che dire del part-time, un rapporto di lavoro osservato sempre con sospetto (tanto che, nelle statistiche, si distingue quello volontario dall’involontario) come se fosse una capitisdeminutio per le donne? Eppure, Eurostat dimostra che esiste una correlazione molto stretta tra i livelli dell’occupazione femminile e quelli del lavoro part-time. E tale correlazione è tanto più evidente nei paesi in cui non solo è elevato il tasso di occupazione femminile (intorno al 70 per cento), ma sono sviluppati i servizi sociali, i congedi (anche di paternità) e tutte quelle misure che, nella letteratura, vengono raccomandate allo scopo di garantire un’effettiva conciliazione tra lavoro e cura della famiglia. Il nostro, poi, è il paese in cui i beneficiari, nella scuola, di un posto fisso (di cui è dubbio vi fosse la necessità), ma lontano da casa, si sono autodefiniti dei “deportati’’ (e ne hanno combinate “di ogni’’ pur di non effettuare il servizio) senza che nessuno dicesse loro di vergognarsi. Soprattutto quando viene denunciato che un milione di famiglie è senza lavoro (ma dimenticandosi di aggiungere che in Italia le famiglie sono 24,5 milioni).
Una considerazione particolare, en passant, spetta ai voucher, vittime inconsapevoli di un destino cinico e baro. Presentati come la deriva di una precarietà dilagante, interessavano lo 0,3 per cento del totale delle ore lavorate in un anno (1/1000 dei contributi versati). Un’ultima chicca. Nelle “fumerie d’oppio’’ dei talk-show, all’inizio dell’anno, è scoppiato lo scandalo di un aumento del 35 per cento per gli abbonamenti ai Frecciarossa, l’emblema dell’Alta velocità nazionale. Persino il ministro Graziano Delrio, in una trasmissione tv, criticò questa misura, tanto che le Fs fecero marcia indietro. Nessuno si chiese quante persone fossero interessate. Non erano più di 7 mila. In conclusione, come ha scritto Gabriel García Márquez, “l’Italia è un paese attraversato dai miraggi, dove non esiste la verità’’.