Dove vuole andare Urbano Cairo
E’ impossibile non amare il presidente del Torino e proprietario di La7, ma perché il suo Corriere va dietro al già visto di Grillo e dei tremendisti che ce l’hanno con i poteri forti? Faccia l’editore, tiri fuori qualcosa che sorprende
Come si fa a non amare Urbano Cairo, che è milanese, ma invece è piemontese, che ha lavorato dieci anni con Berlusconi ma nell’anno del Terrore ha patteggiato a sorpresa e felicemente con i giudici di Mani pulite, che possiede il Torino Football Club e, dopo averlo rilanciato, lo amministra sobriamente perché non superi mai il nono posto in classifica (sennò i calciatori e i coach diventano troppo cari), ma è da sempre milanista come il Cav. (forse oggi cinese forse no). Cairo è uno che ha capito presto un sacco di cose della vita, per esempio che Sandro Mayer e Silvana Giacobini non cacciano farfalle sotto l’arco di Tito, non afferrano cazzi per l’aria (come si dice a Palermo), e dunque faranno bene l’editoria tabloid a cinquanta centesimi di euro, e andranno in profitto con tutta la Cairo Communication; ha capito che se il bilancio dei trasfertisti è di un milione e centomila euro, in una tale azienda che arriva nelle sue mani, lo si può ridurre in un anno di dieci volte, e il risultato finale dei costi tagliati è sempre quello, si finisce di essere in perdita, si va in bonus; ha capito fino allo spasimo il nesso morboso tra la pubblicità e il gusto medio-basso, sa contare le azioni in un’Opa in cui infilza Mediobanca Pirelli Della Valle tutti uno dietro l’altro in Rcs, si sa muovere e si sa divertire con quella sua figurina damerina molto molto torinese, ed è davvero gentile. Sospetto che tra tutte queste abilità conosca anche l’importanza di essere editore, The Importance of Being Publisher, come direbbe Wilde. Ma di questo non sono poi tanto sicuro.
Quando ha preso La7 Cairo si è detto, evidentemente: è di sinistra, anzi “de sinistra”, il talk costa poco e dura tanto, i comici fanno ascolto e basta non pagarli troppo, Mentana non è un essere umano, è un Tg, e così ha fatto il palinsesto. Redditizio. Che invidia, se penso che a “Otto e mezzo”, a parlare di Ratzinger, facevo il due per cento, e la cara Gruber, a parlare con Damilano, fa il triplo. Se non lo avete capito, ho molto rispetto in realtà anche per Cairo editore. Ma da quando ha fatto l’accoppiata con il Corrierone, e la Gazzetta e il resto, la mia naturale simpatia per uno che ha rilevato l’azienda anticasta così bene descritta da Francesco Cundari lunedì scorso qui, con tutto quel sopracciò montezemolante, è temperata da uno straniamento, perché non ho capito dove voglia andare. Lui, Cairo, fa il sobrio, di nuovo, il morigerato, il modesto, l’equilibrato, quello che non se la tira e bada ai conti, e tutti pensano che alla fine il suo problema è il rapporto commerciale prezzo-qualità, come dicono i venditori e i ristoratori, un’idea gli verrà, la politica e la cultura e il giornalismo per adesso chissenefrega, e i progressi attuali nella definizione dei bilanci diventeranno il solito boom. Al momento giusto. Senza fretta. Sapendo che come diceva Taillerand, “l’eccessivo è insignificante” (ma quanto sono intelligenti questi francesi). Però poi penso: se vedi Cairo capisci subito che Grillo è un eccesso insignificante. Perché un po’ come editore gli va dietro? Se vedi Cairo capisci che la Casaleggio Associati è un’azienda di impuniti che prima o poi dovranno patteggiare con la politica, e darsi via a un euro, perché non affretta l’evento con i suoi potenti mezzi? Se vedi Cairo, lo spirito declinista e apocalittico dei tremendisti che ce l’hanno su con la finanza, con l’Europa, con la moneta, con lo sviluppo, con i poteri forti, con la Juve, con la mafia nella Capitale, ecco, quello spirito ti sembra subito una solfa di smoderato pessimismo, di interessato ideologismo. Cairo è un imprenditore, dunque un riformatore nato e uno che nell’accumulazione razionale, nella messa a profitto individuale e sociale, ci crede, se pure creda in qualcosa è in quello che crede. E’ un peccato che per lui tutto sia una continuità carina col già talkato, col già scritto e impaginato, tutto palinsesto, tutto pasta e mai minestra, come si dice a Milano.
Come mai questo prototipo umano della ragionevolezza non si pone il problema della commisurazione dei mezzi ai fini, dello sproposito della democrazia diretta in rete, di un liberalismo dei piccoli passi opposto alla galoppata golosa e insidiosa e vociante dei seminatori di casino per il casino? Certo che non può mettersi a fare il pedagogo. Non può voltare le spalle alla marmaglia così, di brutto, tanto per fare un’accademia delle buone idee, non è mica editore del Foglio, il Corriere e la sorella televisiva richiedono un quantum di prudenza, di scaltrezza, di omaggio alla corrente che è un tantum. Già è molto che tra il nulla banale savianeggiante e il nulla carino abbia scelto, con il corsivo in prima, il carino. Ma da un tipo così, che conosce l’economia e la società, perché ne fa parte e ci lavora con alacrità, che ha un’idea disincantata del mondo politico, dei sindacati, dei colleghi businessmen, e certo intuisce quanto le cose contemporanee siano in realtà distanti dalle foie di movimenti improvvisati e dai simbolismi decrepiti del tutto o niente, da un tipo così ci si aspetterebbe un segnale: fo l’editore, conosco il mondo, e vi tiro fuori qualcosa che vi può sorprendere, a voi ribassisti (altro che populisti, ribassisti sono).
Forse ci vuole ancora del tempo. Un Corriere che rimette sulle gambe la borghesia e il ceto medio mandati con la testa per aria in sacrificio alla lotta contro la casta non è per l’oggi, e manco per il domani. Bisogna tuttavia che Cairo, il ragionevole per antonomasia, tenga conto dell’esperienza. Questo è un paese in cui tutti vogliono un posto di timonieri, ma nessuno poi ha la minima intenzione di viaggiare e far viaggiare la barca, tutti vogliono essere al posto di comando ma si guardano bene dal comandare per dirigersi lungo una qualche rotta, tutti pensano a quale sarà il posto successivo, e a come destreggiarsi per ottenerlo. I direttori, Paolo Mieli a parte, che è troppo furbo, troppo rusé, per credere che nella vita e nella professione ci siano cose che contano più di altre cose, hanno sempre fatto questo giochino, che a volte è andato veramente male, non cito i casi più recenti. E gli editori?