Renzi ha un problema con i tecnici o con le riforme?
Liberalizzazioni, Rai e spending review. Da Calenda a Campo Dall’Orto. I limiti di Renzi nel sostegno a una nuova possibile classe dirigente
Roma. Mentre all’orizzonte si vede sempre più nitida l’eventualità di un governo guidato da una forza politica che vuole abbandonare l’euro, sfasciare l’Unione europea e uscire dalla Nato – quindi smantellare quel sistema di trattati e alleanze internazionali che ha garantito all’Italia un certo livello di benessere e sicurezza – il Pd è impegnato in una guerra contro Carlo Calenda. Il ministro dello Sviluppo economico è diventato il nemico numero uno dei renziani.
Appena parla arrivano le bordate dei fedelissimi sulla stampa. E’ d’accordo con il capogruppo del Pd al Senato Zanda su una convergenza su alcuni punti con il centrodestra per battere Grillo? “Si faccia i fatti suoi, non è del Pd”. Dice di non avere ambizioni da premier? “Bugiardo”. Si dice d’accordo al 90 per cento con Renzi? “Basta con gli attacchi a Renzi”. Se invece sta zitto, allora viene messa in giro la voce che sarà il candidato di Berlusconi e del centrodestra. Quando prende qualche iniziativa politica scattano le rappresaglie in Parlamento. Prima viene affossata la sua proposta di estendere l’iper ammortamento al 2018, poi viene pretestuosamente accusato di voler favorire Mediaset e Berlusconi con la norma “anti scorrerie”, poi si chiede di riaprire la discussione sul ddl Concorrenza – su cui si discute da 2 anni e mezzo – e che il ministro vorrebbe approvare subito.
All’origine della faida c’è il risentimento personale nei confronti di Calenda che, subito dopo il referendum del 4 dicembre, ha rilasciato interviste critiche e “da statista”. Un “tradimento” imperdonabile, nel momento di maggiore difficoltà di Renzi.
Il problema è che Calenda è uno dei pochi che hanno idee e parla di questioni politiche: liberalizzazioni, Industria 4.0, competitività, privatizzazioni, Alitalia. Così, per attaccare l’unico che nella palude fa qualcosa, si colpiscono le riforme necessarie al paese.
Uno dei messaggi centrali del renzismo era che in politica non si dovevano più giudicare le persone secondo il criterio della fedeltà ma con quello della competenza: “Nel mio Pd andranno avanti i più bravi non i più fedeli, dichiarerò guerra alla mediocrità”, diceva Renzi alla Stampa. Può darsi che Calenda non sia stato “fedele”, ma di certo non si può dire che sia un mediocre. Pertanto il renzismo che attacca Calenda rischia di non essere fedele a sé stesso e alle proprie premesse, sacrificando per questioni personali riforme nell’interesse del paese. Prendiamo la legge annuale sulla Concorrenza, una delle innovazioni del governo Renzi, presentata per la prima volta dopo nove anni di silenzio. Calenda si ritrova il testo e dopo due anni di assalto alle liberalizzazioni contenute spinge per portare a casa quel che rimane. A pochi mesi dalla chiusura della legislatura, il Pd chiede di “riaprire la discussione” e rimandare a chissà quando l’approvazione (“Doveva essere una legge annuale e invece sta diventando un piano quinquennale“, ha commentato Calenda). Pare che le questioni personali stiano prendendo il sopravvento sulle idee e sul progetto politico.
Alla stessa conclusione sembra portare il logoramento dei rapporti con il direttore generale della Rai Antonio Campo Dall’Orto, scelto da Renzi per mandare “via i partiti dalla Rai”, fare una rivoluzione nella televisione pubblica per “trasformare la Rai da broadcast a media company”. Per questo era stato scelto un manager proveniente dal settore privato, considerato tra i più bravi sul mercato televisivo. Il compito di Campo Dall’Orto non era certo semplice e in mezzo a esperimenti riusciti vanno considerati anche alcuni fallimenti, come hanno mostrato le dimissioni di Carlo Verdelli e Francesco Merlo dopo il naufragio del piano di riforma della farraginosa struttura dell’informazione, bloccato dalle resistenze sindacali e dalle logiche burocratiche della tv di stato. Ora il dg è bloccato sul bilancio e in particolare sulla questione del tetto al compenso degli artisti, versione Rai della campagna anti casta e anti vitalizi. Alle prime difficoltà il tecnico Campo Dall’Orto, su cui il renzismo aveva fatto una scommessa, viene abbandonato, poi scaricato e infine addirittura attaccato per alcune trasmissioni ritenute ostili al Pd. Ora c’è chi addirittura ne chiede la testa, con esiti paradossali, visto che a difenderlo corrono quelli del M5s: “Se il mandante della situazione che si sta sviluppando in Rai, con le voci di cacciata di Campo Dall’Orto è Renzi, allora Campo Dall’Orto va difeso”, ha dichiarato il grillino Roberto Fico, presidente della commissione di Vigilanza Rai. Per Campo Dall’Orto vale lo stesso principio di Calenda: quando un leader scommette su una nuova classe dirigente deve impegnarsi a coltivare quella classe dirigente, evitando di allontanarsi alla prima difficoltà.
Qualcosa di simile è accaduto con i commissari alla spending review. Renzi ha prima messo ai margini Carlo Cottarelli, chiamato dal Fondo monetario da Enrico Letta, spingendolo a lasciare l’incarico. Poi al suo posto ha ingaggiato l’economista della Bocconi Roberto Perotti, che dopo un anno di lavoro, ha abbandonato l’incarico con una certa delusione rispetto alle aspettative. In entrambi i casi Renzi ha riaffermato il principio, sacrosanto, del primato della politica rispetto ai tecnici (“Decide il governo cosa tagliare, non i commissari”), ma alla fine quando si è trattato di passare ai fatti di riduzioni di spesa se ne sono viste poche. Ora come commissario alla spending review c’è il fedele e politico Yoram Gutgeld, ma di tagli se ne vedono pochi. Il problema non è tanto se il renzismo scarichi alcuni tecnici, ma se ha deciso di sacrificare le riforme.