Raffaele Cantone (foto LaPresse)

Il fantasma della corruzione che blocca l'amministrazione e aiuta Grillo

L’apparato esecutivo oggi soffre di due mali, uno esterno, uno interno. Dall’esterno, esso è assediato. All’interno, incapace di innovare. Il Parlamento esonda e i giudici pure: più che leggi serve modernizzazione

Professor Cassese, lei ha detto recentemente che, fallito il tentativo di riforma costituzionale, ci si dovrebbe concentrare sulla riforma della pubblica amministrazione. Da dove cominciare?

Le sembrerò pedante: vorrei cominciare dalla diagnosi, perché mi pare difficile passare alla cura e alla prognosi saltando una valutazione dello stato attuale degli uffici e dei servizi amministrativi.

 

La seguo, a patto di non fare un trattato.

L’apparato esecutivo oggi soffre di due mali, uno esterno, uno interno. Dall’esterno, esso è assediato. All’interno, incapace di innovare.

 

Partiamo dall’assedio.

Gli assedianti sono molti. Il Parlamento che esonda, fa leggi sempre più minute. Siamo in un circolo vizioso: sfiducia nelle capacità realizzative dell’amministrazione, tentativo di fare leggi auto-applicative per aggirare l’ostacolo, blocco delle decisioni. Marco Cammelli ha scritto pagine molto convincenti, dove questa diagnosi è svolta accuratamente.

 

E poi?

Poi vengono i giudici. Pensi alla decisione del Tar Lazio, Terza Sezione, del 6 aprile scorso, relativa all’espianto degli ulivi in Puglia per la posa del gasdotto su poco più di otto chilometri. Si era pronunciato il Consiglio di Stato. Il Tribunale amministrativo regionale è nuovamente intervenuto con una decisione incomprensibile di accoglimento della richiesta di misure cautelari, riconoscendo che l’opera di “importanza strategica nazionale” era “definitivamente approvata”, ma riservando “la ricerca di soluzioni più opportune per il soddisfacimento dei molteplici interessi pubblici coinvolti” e parlando di “ottimizzazione e adeguato scaglionamento temporale degli interventi”. Insomma, non si decide mai. Non si finisce, così, per dare ragione agli economisti, da Prodi a Boitani, che vedono nella giustizia amministrativa l’intralcio da rimuovere?

  

E i magistrati civili e penali?

Dànno anche questi un contributo. Pensi alla dichiarazione del procuratore di Trani al Corriere della sera del 31 marzo scorso: “Io sono innanzitutto un promotore di giustizia prima che un pubblico accusatore”. Su questa base ha promosso indagini sulle società di rating, con i risultati che sono noti. Ma non ci si ferma qui, perché c’è anche la Corte dei conti con i suoi procuratori regionali, che contribuiscono a spaventare gli amministratori, per non dire di quella “Prokuratura” che si è insediata nell’amministrazione e dà i voti a tutto e a tutti, che è l’Anticorruzione.

 

Lei ha già espresso una opinione critica sull’operato dell’Anac.

E la confermo. Per due motivi. Perché evoca il fantasma della corruzione, senza neppure tentare di spiegare la portata del fenomeno. In un recente libro edito da Laterza e intitolato “Il pregiudizio universale”, tra i molti pregiudizi, due acuti scrittori hanno dato la baia alla leggenda della corruzione che “ci costa 60 miliardi all’anno”. Non è il caso, prima di gridare “al lupo”, di sapere quanti sono i lupi? Ora, poi, ci viene fatto sapere dall’Anac che c’è il “rischio di nuove tangentopoli” e di una “classe politica selezionata dalla corruzione”. Possibile che così forti argomenti a favore dei grillini vengano dall’interno dello Stato? Il Parlamento non dovrebbe preoccuparsi e costituire una commissione di inchiesta sul fenomeno, se è così grave? Oppure si tratta solo di vicende romane?

 

Il secondo motivo della critica?

Si confonde la prevenzione della corruzione, obiettivo giusto, con la reintroduzione di controlli preventivi, sotto forma di “vigilanza collaborativa” e da “raccomandazioni vincolanti”. Amore degli ossimori. Prevenzione della corruzione vuol dire innanzitutto avere buoni tecnici nell’amministrazione, ben selezionati e ben pagati. Non vuol dire avere per ogni amministrazione un nuovo angelo custode.

 

Fin qui le responsabilità esterne. Passi ora a quelle interne.

Gli amministratori sanno di lavorare in una struttura ad alveare, continuamente condizionata dalla finanza, fortemente influenzata dall’ambiente, specialmente nel Sud. Ma – con pochissime eccezioni – non hanno fatto mai il tentativo di alzare la testa per riflettere sui modi per uscire dall’“impasse”, fare proposte, prendere essi stessi in mano il tema della riforma. Si sono adagiati nel quieto vivere. Hanno risposto ai condizionamenti esterni, ai limiti, ai sospetti sulla loro onestà, con “chi me lo fa fare?”. Hanno sempre aspettato che le innovazioni venissero dalla politica, cioè dal governo. Il governo si vale dell’amministrazione, ma non la conosce, anche perché gli uomini di governo durano poco in carica.

 

Le conseguenze?

Il fantasma della corruzione che blocca l’amministrazione e aiuta GrilloSono descritte in un bel libro, di cui non mi stanco di consigliare la lettura, a cura di Luisa Torchia, intitolato “I nodi della pubblica amministrazione” (Editoriale scientifica). Un manipolo di studiosi ha analizzato le cause per cui ogni decisione si blocca, e indicato i rimedi. E’ da lì che bisogna cominciare. E bisogna cominciare con urgenza, perché sull’amministrazione incombe una minaccia, quella dei Cinque stelle, con i loro argomenti populistici e la loro gestione nelle mani di un nuovo demiurgo.

 

Ritorniamo alla prima domanda: lei da dove comincerebbe?

Comincerei dal dare la voce agli amministratori pubblici, sentire che cosa pensano, ascoltare le loro proposte. Poi da questo far nascere progetti mirati, che non pretendano di abbracciare l’universo mondo amministrativo. Passare poi alla loro realizzazione, facendoli diventare forza trainante, modelli esemplari. Piccoli fuochi diffusi, perché l’incendio possa divampare e il Paese possa riconciliarsi con il suo Stato. Sto sognando?

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