Il populismo buono
Il rischio di avere un Renzi anti establishment è la strada più veloce per arrivare al governo Davigo
A poche ore dalla fine della campagna delle primarie Pd, c’è una domanda di fronte alla quale molti sostenitori di Matteo Renzi faticano a trovare una risposta convincente. La questione è semplice: Renzi non è più la novità della politica italiana (è oggettivo) ma la politica italiana, per evitare la formazione nella prossima primavera di un governo Davigo (ci torneremo), ha bisogno di un leader come Renzi. Per uscire da questo paradosso non banale – e apparentemente non risolvibile – è necessario fare un piccolo sforzo e immaginare chi è oggi l’elettore di Renzi. Sia quello che domenica lo voterà alle primarie. Sia quello che pur non votandolo alle primarie non esclude di votarlo alle prossime elezioni, se dovesse essere l’unica alternativa possibile all’Italia delle scie chimiche. Proviamo a ragionare senza sondaggi ma solo con un po’ di buon senso. Oggi sono grosso modo tre le tipologie di elettori che bene o male (chi godendo, chi soffrendo, chi sbuffando) si identificano in Renzi: l’elettore progressista convertito (vero core business inesplorato del renzismo) che ha compreso che la sinistra non ha futuro se non spezza le catene che l’hanno intrappolata per una vita; l’elettore che un tempo si sarebbe riconosciuto nella vecchia Margherita (che nel Pd ha portato una dote di circa 3.664.622 voti); l’elettore che non farebbe fatica ad accettare la definizione di ceto produttivo (anche se la distanza marcata da Beppe Sala con Renzi ci dice che in quel mondo sta cambiando qualcosa) e che non considerando il centrodestra un’alternativa valida al grillismo tende a sentirsi più rappresentato da un Pd senza i D’Alema che da una Forza Italia ostaggio dei Salvini.
Tutto questo significa una cosa semplice, che coincide con la vera sfida di Matteo Renzi. Tra il 2013 e il 2014 la rottamazione della vecchia classe dirigente della sinistra ha reso il Pd competitivo al grillismo (quantomeno alle europee) anche perché la rottamazione, da un certo punto di vista, è stata una versione più raffinata del metodo anti casta partorito nei Vaffanculo day. Nel 2018, invece, essendo la rottamazione grosso modo riuscita dal punto di vista del ricambio della classe dirigente (ci sono eccezioni, certo) e dal punto di vista del ricambio dei contenuti politici (si poteva fare di meglio, certo), la vera partita del segretario del Pd diventa un’altra: gettare nel cestino della storia alcuni panni che non può vestire più, quelli del leader che trova nel suo essere anti establishment la sua unica forma di realizzazione politica. All’indomani della vittoria in Olanda del conservatore Mark Rutte, che ha reso inoffensivo il partito anti sistema di Geert Wilders, il Guardian ha aperto un piccolo dibattito su un tema che merita di essere approfondito: è possibile che accanto a un populismo cattivo (e distruttivo) possa esistere un populismo buono (e costruttivo)?
Forse sì. Per quanto possa sembrare paradossale, la grande partita che si aprirà in Italia da lunedì mattina, dopo le primarie del Pd, è proprio questa: scommettere su una forma di populismo buono finalizzato alla costruzione e non alla distruzione. La vera novità della politica italiana, nei prossimi mesi, è destinata a essere questa: non chi presidierà con più forza il campo dove si muove il magma delle forze anti sistema, ma chi presiederà con più forza il campo opposto. Serve insomma un populismo buono e non demagogico (è un ossimoro, sì, ma chi lo ha detto che è facile fare il populista buono) che sappia avvicinarsi più al modello Merkel (il consenso si può costruire anche con la visione e non solo con la tattica) che al modello Di Maio e che riesca a fare una cosa che oggi sembra impossibile ma che forse non lo è: togliere dalla mano degli sfascisti la visione del presente.