La grande truffa della democrazia diretta del M5s, spiegata
Fingendo di fare decidere milioni di persone continuamente su tutto, il Movimento vuole un sì incondizionato a decisioni calate dall’alto su cui i cittadini non hanno gli strumenti per decidere
Beppe Grillo e il Movimento cinque stelle ripropongono periodicamente l’introduzione in Italia del regime della democrazia diretta in virtù del quale il singolo cittadino, anziché essere interpellato solo in occasione delle competizioni elettorali, dovrebbe potere esprimere il proprio voto su ogni proposta politica che si volesse tramutare in legge dello stato o delle regioni o, ancora, in provvedimenti amministrativi degli enti locali.
Fare esprimere
i cittadini su tutto
è un'idea seducente,
ma in totale dispregio dell'articolo 1
della Costituzione Repubblicana
I pentastellati, dunque, pensano degli italiani quello che Jean-Jacques Rousseau pensava con ingiustificato scherno degli inglesi e cioè che “il popolo inglese crede di essere libero, ma si sbaglia di grosso, lo è soltanto durante l’elezione dei membri del Parlamento; appena questi sono eletti, esso torna schiavo, non è più niente”.
L’esercizio della libertà politica, quella vera s’intende, dovrebbe pertanto essere recuperato per mezzo di un’assemblea permanente, composta da decine di milioni di cittadini sempre pronti a manifestare la loro opinione su ciascuna delle centinaia di tematiche politiche e amministrative che necessitano di continuo di essere esaminate e sviscerate per garantire il corretto ed efficiente funzionamento di uno stato moderno.
Si tratta, com’è facile comprendere, di un’idea seducente che mira a lusingare l’elettore con la proposta di renderlo depositario non solo della titolarità ma anche dell’esercizio diretto della sovranità (in totale dispregio dell’articolo 1 della Costituzione Repubblicana, sia detto per inciso), facendo piazza pulita, una volta per tutte e per sempre, della “casta” dei rappresentanti, di quel ceto politico, cioè, accusato di essere autoreferenziale, incapace di interpretare la reale volontà del popolo e di tradurla in atti e provvedimenti concreti.
Alessandro Di Battista e, alle sue spalle, un'immagine di Gianroberto Casaleggio (foto LaPresse)
A coloro che fanno osservare come la democrazia diretta sia stata da sempre il cavallo di battaglia di pensatori e politici (come lo stesso Rousseau) non annoverabili nel catalogo dei promotori delle libertà e dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino (sia sufficiente ricordare che l’idea del mandato imperativo dei parlamentari, uno dei surrogati della democrazia diretta sbandierato anch’esso dal Movimento cinque stelle, fu promossa da Lenin e trasfusa nelle varie costituzioni sovietiche) Grillo e compagni replicano con lo sdegno di chi dichiara di avere svelato nella contrarietà alla loro proposta di palingenesi istituzionale la difesa della “casta” e l’intento di continuare a opprimere la moltitudine dei cittadini.
Bobbio non afferma mai di desiderare l’assemblea dei cittadini in adunata permanente davanti agli schermi
dei computer
In aggiunta, i grillini tentano di valorizzare, nello svolgimento di questo dibattito, l’autorevolezza di un filosofo come Norberto Bobbio che nel suo volume “Il futuro della democrazia” avrebbe ritenuto auspicabile la democrazia diretta a condizione, tuttavia, della disponibilità delle tecnologie necessarie per “trasmettere il voto a un cervello elettronico standosene comodamente a casa e schiacciando un bottone”. Oggi quella tecnologia esiste, concludono i cinque stelle, Bobbio sarebbe quindi d’accordo con l’introduzione della democrazia diretta e rigetterebbe con sdegno il “contro canto” interessato delle élites imbelli e dei loro ancora numerosi seguaci.
E’ necessario, tuttavia, osservare come la lettura che Grillo e i cinque stelle propongono del pensiero di Norberto Bobbio rappresenta, a ben vedere e a volere essere dapprima buoni, un indice sintomatico della pericolosa superficialità intellettuale con la quale si accostano alla tematica della democrazia diretta. A voler pensare male, poi, la chiara rivelazione di un’idea ammaliante di chiara matrice populista, buona non tanto per liberare l’esercizio diretto della sovranità popolare (cosa che già sarebbe un guaio di per sé) quanto per concentrarne i favori su una sola forza politica e fors’anche su un solo uomo.
Ne “Il futuro della democrazia”, infatti, Norberto Bobbio dedica un intero capitolo al rapporto fra democrazia rappresentativa e democrazia diretta e non afferma mai di desiderare di vedere l’assemblea dei cittadini in adunata permanente, nemmeno davanti agli schermi dei computer collegati alla rete internet.
Il continuo esercizio diretto della sovranità popolare avrebbe gravi ripercussioni sul grado di efficienza
delle procedure decisionali
Bobbio ritiene, invece, che la democrazia diretta nella sua versione originale (quella dei cinque stelle, per essere chiari) rappresenti un regime irrealizzabile e allo stesso tempo illiberale. Il passo merita di essere integralmente trascritto perché permette di svelare senza tema di smentita l’errore (a voler essere generosi) o l’impostura (a voler essere realisti) a cinque stelle: “Certo, se per democrazia diretta s’intende alla lettera la partecipazione di tutti i cittadini a tutte le decisioni che li riguardano, la proposta è insensata. Che tutti decidano su tutto in società sempre più complesse come sono le società industriali moderne è materialmente impossibile. Ed è anche umanamente, cioè dal punto di vista dello sviluppo etico e intellettuale dell’umanità, non auspicabile. Negli scritti giovanili Marx aveva additato come meta dello sviluppo civile dell’umanità l’uomo totale. Ma l’individuo rousseauiano chiamato a partecipare dalla mattina alla sera per esercitare i suoi doveri di cittadino sarebbe non l’uomo totale ma il cittadino totale. E il cittadino totale non è a ben guardare che l’atra faccia non meno minacciosa dello stato totale. Non a caso la democrazia rousseauiana è stata spesso interpretata come democrazia totalitaria in polemica con la democrazia liberale. Il cittadino totale e lo stato totale sono due le due facce della stessa medaglia, perché hanno in comune… lo stesso principio: che tutto è politica, ovvero la riduzione di tutti gli interessi umani agli interessi della polis, la politicizzazione integrale dell’uomo, la risoluzione dell’uomo nel cittadino, la completa eliminazione della sfera privata nella sfera pubblica e via dicendo”.
Il filosofo torinese spiega, inoltre, che l’unica democrazia che intende promuovere è quella che amplia gli spazi istituzionali e sociali all’interno dei quali il cittadino è chiamato a partecipare alle elezioni, cosicché dovrebbe essere possibile votare non solo per il Parlamento nazionale e per le articolazioni territoriali della Repubblica (regioni ed enti locali) ma anche per tutte le formazioni sociali all’interno delle quali si svolge la personalità dell’individuo (elezioni nelle scuole, nelle imprese, nelle pubbliche amministrazioni, nei partiti politici, nelle associazioni private, e così via), Ma Bobbio non promuove mai l’esercizio diretto della sovranità popolare, né tantomeno il suo surrogato della rappresentanza con vincolo di mandato, perché il vincolo “è se mai una caratteristica degli organismi regolati su base gerarchica, cioè di quegli organismi in cui il flusso del potere procede dall’alto in basso e non dal basso in alto, e quindi molto più adatta ai sistemi autocratici che nona quelli democratici”.
John Stuart Mill riteneva che “fare delle leggi
è un compito
che necessita
più di ogni altro
di menti esperimentate ed esercitate”
Ciò che i promotori della democrazia diretta non sembrano cogliere, in ogni caso, al di la delle interpretazioni tendenziose del pensiero di Bobbio che già ne screditano irrimediabilmente le argomentazioni, è il pericolo insito nella democrazia diretta di trasformare le società liberali in regimi autoritari, pericolo cui lo stesso filosofo torinese, come abbiamo visto, ha accennato ampiamente.
Aveva avvertito tutto per tempo Benjamin Constant, il quale nel suo “La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni” aveva ricordato che la libertà politica è sì la garanzia della libertà personale, ma quest’ultima è l’unica vera libertà moderna, cosicché “chiedere ai popoli dei nostri giorni di sacrificare, come quelli di un tempo, tutta la libertà individuale alla libertà politica, è la via più sicura per allontanarli dall’una; e a qual punto non si tarderebbe a sottrarle loro anche l’altra”.
Proprio al fine di evitare che il cittadino sia del tutto assorbito dagli affari pubblici (nella lettura di decine di migliaia di proposte di legge da vagliare mensilmente e nel tentativo di comprenderle e di emendarle, con notevole dispendio di tempo che le possibilità offerte dalla rete internet non potrebbe comunque eliminare) e che questo impegno necessiti del sacrificio degli affari privati, della rinuncia alla cura delle proprie attività economiche, delle relazioni familiari e amicali, “i moderni” hanno da sempre preferito la democrazia rappresentativa che è quel regime, sono sempre parole di Constant, “in cui il popolo affida a un ceto specializzato ciò che la stragrande maggioranza dei cittadini non può e non vuole fare”. La riduzione degli interessi umani all’interesse della Polis è, infatti, secondo quanto ha chiarito lo stesso Bobbio, l’anticamera dello Stato totalitario, diretta derivazione, in questo caso, della democrazia diretta.
Militanti del M5s davanti ad un gazebo a Bergamo (foto LaPresse)
Il principio della divisione del lavoro
Il costante e continuo esercizio diretto della sovranità popolare, poi, avrebbe delle gravissime ripercussioni sul grado di efficienza delle procedure decisionali e sulla qualità delle deliberazioni assunte. L’idea della democrazia diretta, infatti, contrasta col principio della specializzazione delle attività umane, altrimenti definito, principio della divisione del lavoro.
E’ almeno dai tempi di Adam Smith e della pubblicazione della “Ricchezza delle Nazioni” che vi è unanime consenso sul fatto che l’aumento della ricchezza rappresenti una diretta conseguenza anche della divisione del lavoro cui segue un innalzamento dei livelli di produttività economica: “Sembra che il grandissimo progresso della capacità produttiva del lavoro e la maggiore abilità, destrezza e avvedutezza con le quali esso è ovunque diretto o impiegato siano stati effetto della divisione del lavoro”.
La democrazia diretta richiederebbe, invece, non solo che il singolo cittadino fosse iper specializzato nello svolgimento delle sue attività lavorative private ma che acquisisse anche una specializzazione nella comprensione e nella “pratica” di tutti i campi dell’agire pubblico e politico quali, a titolo d’esempio, difesa, giustizia, finanza pubblica, commercio internazionale, sicurezza, istruzione.
Ad Atene, senza
gli schiavi, ventimila cittadini ateniesi
non avrebbero potuto recarsi a deliberare
ogni giorno sulla piazza
L’inevitabile conseguenza concreta di tale pretesa consisterebbe in una brusca e irreversibile caduta del grado di preparazione tecnica dei decisori politici da un lato, e in una gravissima perdita di produttiva, dall’altro, che condurrebbe all’immiserimento economico repentino del nostro paese.
Sebbene forse a malincuore, i principali esponenti della cultura politica autenticamente liberale vissuti negli ultimi duecentocinquanta anni hanno dovuto prendere atto della necessità che le decisioni politiche e amministrative siano assunte da un corpo specializzato di decisori eletti (e dunque scelti) dal popolo, ma non dal popolo direttamente.
John Stuart Mill, ad esempio, riteneva che “fare delle leggi è un compito che necessita più di ogni altro di menti esperimentate ed esercitate, ma altresì delle esigenze formatesi a tale lavoro grazie a lunghi ed elaborati studi. Queste ragioni sarebbero sufficienti, quand’anche non ce ne fossero altre, perché le leggi non venissero mai poste in essere se non da un comitato composto da poche persone”.
Alexis de Tocqueville, che della democrazia in America fu cantore e critico allo steso tempo, apprezzava il meccanismo delle elezioni di secondo grado (come quelle che per un certo periodo disciplinarono la selezione dei senatori degli Stati Uniti) e il forte contrappeso rappresentato dalla presenza dei “legisti” (il corpo dei giuristi) nella società del nuovo mondo. Da un lato le elezioni di secondo grado permettevano, nella ricostruzione del magistrato francese, la selezione di personale culturalmente e tecnicamente più attrezzato ad affrontare le sfide della legislazione, dall’altro, la presenza di un consistente e autorevole corpo di giurisperiti garantiva un bilanciamento, sul piano della tecnica giuridica e della politica liberale, rispetto alle possibili derive populiste rappresentate dalle decisioni democraticamente assunte dall’intero corpo elettorale.
Raymond Aron riteneva che “La sovranità popolare non significa che la massa dei cittadini prenda essa stessa, direttamente, le decisioni relative alle finanze pubbliche o alla politica estera. E’ assurdo paragonare i regimi democratici moderni all’idea irrealizzabile di un regime in cui popolo si governi da sé”.
Karl Popper, pur avendo avvertito la necessità di contrastare l’idea di democrazia come governo dei migliori, pensava che l’essenza dei regimi democratici non risieda nel governo del popolo, sotto forma di esercizio diretto della sovranità, ma nella possibilità per i cittadini di sbarazzarsi pacificamente e senza spargimento di sangue dei governanti giudicati incapaci.
Persino Rousseau, che liberale non fu mai, si dovette alla fine rassegnare al fatto che la democrazia diretta può essere esercitata solo da un popolo di Dei.
Se tutti volessero esercitare la democrazia diretta nessuno potrebbe farlo, se tutti volessero il reddito
di cittadinanza nessuno potrebbe riceverlo
Si tratta di autori, (a esclusione del padre del Contratto Sociale) che nel propugnare la democrazia rappresentativa non hanno tuttavia mai concesso spazio a derive oligarchiche o a scivolamenti verso l’autoritarismo, perché sempre impegnati, invece, nella difesa dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo. A testimonianza, questa ultima constatazione, dell’errore (o della mala fede) in cui incorrono quanti ritengono essere incompatibile la difesa della democrazia rappresentativa con la tutela di un sistema istituzionale autenticamente liberale. E’ vero, semmai, il contrario, e cioè che la promozione della democrazia diretta è il percorso più breve e più sicuro verso la schiavitù.
A dirla tutta, infatti, la preoccupazione principale della maggior parte dei pensatori liberali è sempre stata quella di unire in maniera inscindibile la democrazia al liberalismo, sino al punto d’affermare come l’unica vera democrazia sia quella liberal democratica, giacché l’esercizio senza limiti del potere democratico (soprattutto di quello di cui sarebbe titolare il popolo nella democrazia diretta), vale a dire non calmierato dai vincoli del costituzionalismo liberale, non sarebbe altro che l’altra faccia dei regimi totalitari. Il prof. Giovanni Sartori, per esempio, ha affermato che “Intanto la democrazia moderna esiste, in quanto è istituita dal superamento liberale della democrazia letterale. Nonostante che ben poco lo si avverta, la democrazia che riveriamo è la liberaldemocrazia”. E va da sé che per democrazia in senso “letterale”, come governo del popolo, debba intendersi la democrazia diretta in primo luogo.
La conseguenza sarebbe un collasso
Sul piano più squisitamente pratico, riprendendo una considerazione cui sopra si è fatto cenno, si deve ribadire che l’impegno pubblico richiesto dalla democrazia diretta produrrebbe il collasso dell’intero sistema produttivo a causa della “distrazione” di milioni di individui dalle attività economiche a quelle politiche. Del resto coloro che promuovono la democrazia diretta omettono di considerare quanto Benjamin Constant dichiarò già duecento anni fa e cioè che “ad Atene, senza gli schiavi, ventimila cittadini ateniesi non avrebbero potuto recarsi a deliberare ogni giorno sulla piazza pubblica” .
L’inganno è presto svelato, il pericolo
è dietro l’angolo.
I comici facciano
i comici; dittatori ne abbiamo avuti già abbastanza
Luciano Canfora, storico e filologo che non può essere tacciato di indulgere in simpatie verso il conservatorismo o il liberismo, nella usa opera “La Democrazia – Storia di un’ideologia”, ha accertato il dato storico secondo il quale nell’antica Atene per ogni uomo libero dedito alle attività politiche sulla pubblica piazza ci fossero almeno quattro schiavi che si dedicavano alle attività materiali di produzione di quei beni e servizi senza il godimento dei quali il “cittadino” non si sarebbe potuto occupare delle deliberazioni pubbliche. Il nesso inscindibile fra possibilità di dedicarsi prevalentemente alle attività pubbliche della Polis greca e necessità che il cittadino fosse libero ed economicamente indipendente è confermata da una circostanza storica specifica che Canfora non manca di mettere in evidenza: “Ad ogni modo, per la partecipazione all’assemblea furono necessari, pur dopo la restaurazione democratica pienamente compiuta nel 409 a.C., degli incentivi. E’ la famosa diobelia (un salario di due oboli), che Aristotele attribuisce all’iniziativa di Cleofonte e che comunque è attestata in documenti epigrafici per gli anni 410/405 a. C. Incentivi volti a tamponare l’assenteismo dei non possidenti, indotti a partecipare a pagamento alle riunioni, perché risarciti della perdita di una giornata di lavoro”.
Si svela così, peraltro, come l’attività politica sin dall’antichità abbia richiesto una dedizione assorbente e una specializzazione tale da potere essere assicurate solo dall’autonomia e dall’indipendenza economica di quanti la esercitarono direttamente e in via prioritaria.
Vale per la proposta di esercitare in via diretta la democrazia quanto si potrebbe affermare con riguardo all’istituzione del reddito di cittadinanza. Se tutti volessero esercitare costantemente la democrazia diretta nessuno potrebbe in realtà farlo, allo stesso modo di come se tutti volessero beneficiare del reddito di cittadinanza nessuno potrebbe riceverlo per mancanza della ricchezza da produrre.
Tappe verso un regime
Nella lunga marcia verso la democrazia diretta, una tappa fondamentale intermedia sembra rappresentata, nella ricostruzione del nuovo regime a cinque stelle, dall’introduzione del mandato imperativo che costringerebbe il parlamentare/rappresentante a seguire alla lettera le indicazioni provenienti dal corpo elettorale o dal partito politico, pena la revoca (recall) dell’incarico elettorale conferito.
Si tratta, anche in questo caso, di una proposta che si inscrive coerentemente nel progetto di trasformazione della democrazia liberale pluralista in un regime autoritario monocorde.
Potrebbe essere sufficiente ricordare che per l’introduzione del mandato imperativo nella Costituzione francese si batté un tale Maximilien de Robespierre, giacobino della prima ora e mandante, (durante il periodo d’intermezzo della Rivoluzione Francese denominato del “terrore” che avrebbe dovuto condurre all’istituzione della vera democrazia) di centinaia di omicidi di oppositori politici per mezzo della ghigliottina (nonostante la sua formale contrarietà alla pena di morte) e decapitato poi egli stesso. Mentre, paradossalmente, era stato il sovrano assoluto Luigi XVI, nel giugno del 1789, a dichiarare incostituzionale e contrario all’interesse dello stato la formula dei mandati imperativi che costringeva i rappresentanti dei tre stati a interpellare a ogni piè sospinto le assemblee dei mandatari, con la conseguenza di paralizzare le attività legislative e di trasformare le deliberazioni degli stati generali in contrattazioni fra interessi di classe anziché nell’individuazione dell’interesse generale della nazione.
Per l’introduzione
del mandato imperativo nella Costituzione francese si batté
un tale Maximilien
de Robespierre
Il mandato imperativo, successivamente, è stato ampiamente utilizzato pressoché esclusivamente nei regimi socialisti dittatoriali nel corso del XX secolo al fine di imporre la supremazia assoluta della volontà delle gerarchie di partito sulla libertà individuale dei singoli parlamentari e con lo scopo di sopprimere qualsiasi forma di dissenso e di libero confronto: nella Cecoslovacchia del 1920, nelle Costituzioni Sovietiche dal 1936 in poi, nella Costituzione della Repubblica Cinese del 1982, nella Costituzione Cubana del 1996 e poi a Panama, in Colombia e in Cile.
Negli Stati Uniti, dove l’istituto del recall è utilizzato solo in una decina di stati, la procedura per sostituire il deputato è assistita dalle garanzie procedimentali quali il contraddittorio con il “richiamato”, la raccolta di un numero minimo di firme, l’intervento diretto degli elettori, l’impossibilità di utilizzare la procedura in alcuni periodi pre elettorali. Il vincolo di mandato, pertanto, non si iscrive all’interno di un contesto di supremazia della volontà delle gerarchie di partito e non tende a rappresentare la negazione del pluralismo e del dibattito interno alle formazioni politiche.
La proposta del Movimento cinque stelle, invece, appare unicamente indirizzata (i fatti di cronaca politica delle ultime settimane sembrano già darne ampia conferma) non già all’esclusivo riconoscimento della supremazia della volontà degli elettori sugli eletti in ogni circostanza ed in ogni tempo (risultato di per sé per nulla auspicabile), ma alla cruda sottomissione dei rappresentanti democraticamente eletti alla volontà delle burocrazia partitiche o, peggio ancora, di leader apparentemente carismatici ma in realtà semplicemente populisti.
Rileggere le Costituzioni
La democrazia rappresentativa e il divieto di vincolo di mandato parlamentare rappresentano i migliori risultati dell’evoluzione delle istituzioni dei paesi occidentali liberal democratici e non è di certo un caso che la pressoché totalità delle carte costituzionali degli Stati liberali assicurino il combinato disposto dell’una e dell’altro. Cosi la Costituzione Francese della V Repubblica allorché afferma che “la sovranità nazionale appartiene al popolo che la esercita per mezzo dei suoi rappresentanti e mediante referendum. Nessuna frazione del popolo né alcun individuo può attribuirsene l’esercizio”. Così quella tedesca, nella parte in cui precisa che “Tutto il potere statale emana dal popolo. Esso è esercitato dal popolo per mezzo di elezioni e di votazioni e per mezzo di organi speciali investiti di poteri legislativo, esecutivo e giudiziario”. E pure la Carta fondamentale spagnola che predica come “la sovranità nazionale risiede nel popolo spagnolo da cui emanano i poteri dello Stato. La forma politica dello Stato spagnolo è la monarchia parlamentare”.
Su tutte, per ragioni cronologiche, svetta la Costituzione americana: “Di tutti i poteri legislativi qui concessi sarà investito un Congresso degli Stati Uniti che consisterà di un Senato e di una Camera dei Rappresentanti”.
Al Movimento cinque stelle è poi stato già ricordato, più e più volte, di leggere integralmente il testo dell’articolo 1, comma secondo, della Costituzione repubblicana e di soffermarmi in particolare sull’enunciato posto dopo la virgola che segue il primo periodo “La sovranità appartiene al popolo, (ecco la virgola che introduce ciò che si fa finta di non voler vedere, ndr.) che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
La democrazia rappresentativa, l’unica forma di democrazia storicamente radicatasi negli stati dell’epoca moderna, è stata sin qui capace, ove assistita dal liberalismo, di assicurare la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali grazie ai limiti sanciti nelle carte costituzionali d’impronta liberale, di garantire lo sviluppo economico in virtù della specializzazione e della divisione del lavoro in un’economia capitalista di libero mercato, di procedere al ricambio, senza spargimento di sangue, delle élite al governo in ragione dello svolgimento periodico di libere elezioni a suffragio universale.
L’esercizio della democrazia diretta in capo a milioni di cittadini non aggiungerebbe alcuna garanzia, né sul piano dell’efficienza dei processi decisionali, né su quello della tutela dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo perché, come osservò acutamente Tocqueville, “quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte, poco m’importa di sapere chi mi opprime, e non sono più disposto ad infilare la mia testa nel giogo soltanto perché mi viene presentato da un milione di braccia”.
Di fronte alle gravi controindicazioni sin qui illustrate l’appello alla democrazia diretta non può che apparire per quello che in effetti è: l’appello dei populisti rivolto a milioni di persone ad avere fiducia, di volta in volta, nelle indicazioni che essi caleranno dall’alto sulle singole questioni sottoposte al giudizio del corpo elettorale e di cui gli elettori non potranno occuparsi realmente.
L’inganno è presto svelato, il pericolo è dietro l’angolo.
I comici facciano i comici; dittatori ne abbiamo avuti già abbastanza.