Fausto Bertinotti con Romano Prodi (foto LaPresse)

In attesa di una legge elettorale, almeno risparmiateci le coalizioni

Roberto Arditti

Se ne parla da ventitré anni, come se fosse la soluzione ai problemi della politica. Eppure spesso ne è stata la loro causa

Si aggira un fantasma dalle parti del dibattito sulla legge elettorale. Un fantasma chiamato “coalizione”, che molti si affannano a proporci come soluzione a tutti i problemi della politica nazionale mentre invece ne è la causa o, quantomeno, una fedele rappresentazione. Di coalizioni si parla da ormai 23 anni, cioè dalla data di nascita della Seconda Repubblica.

 

E’ infatti con le elezioni del 1994 che diventa d’attualità il tema, mostrando subito la sua totale inadeguatezza: Berlusconi vince a marzo le elezioni ma a dicembre un socio fondamentale della compagine lo abbandona (Umberto Bossi), provocando la fine del governo a meno di otto mesi dall’avvio.

 

Ci riprova Romano Prodi nel 1996 e fa la stessa fine, solo un poco più tardi: a ottobre del 1998 nasce il governo D’Alema sostenuto da una maggioranza diversa da quella uscita vincitrice dalle urne (entra Cossiga ed esce Bertinotti), con Rifondazione comunista che annuncia voto contrario alla Legge di bilancio del professore, provocando così la fine dell’Ulivo prima maniera.

 

Siamo al 2001 e Berlusconi rivince le elezioni. Regge cinque anni a Palazzo Chigi (unico caso nell’intera storia della Seconda Repubblica), ma sopporta le pene dell’inferno, con An che gli impone il cambio del ministro dell'Economia (Siniscalco al posto di Tremonti) e l’Udc (segretario Follini) che lo obbliga a una crisi di governo (aprile 2005).

 

Arriva il 2006 e Romano Prodi prende la sua rivincita. Torna a Palazzo Chigi, ma ci resta 18 mesi e poco più. All’inizio del 2008 se ne va il partito di Clemente Mastella e il segretario del Pd (Veltroni) non si oppone allo scivolamento verso le elezioni: la coalizione mostra quotidianamente limiti impressionanti, con una cabina di regia ingovernabile piena zeppa di partitini litigiosi.

 

Si va dunque al voto e Berlusconi porta a casa la sue terza affermazione. Questa volta addirittura fondendo Forza Italia con Alleanza nazionale, per rendere più compatta la coalizione. Già sappiamo come finisce: il litigio con Fini raggiunge vette maestose e il presidente della Camera viene espulso dal partito di cui è fondatore. Il governo galleggia a fatica sotto le mazzate dello spread e nell’autunno del 2011 crolla, senza nemmeno passare dalla sfiducia in Parlamento. A Palazzo Chigi arriva Mario Monti, il che non era esattamente nei piani degli elettori italiani.

 

Siamo così alle ultime elezioni, quelle del 2013. Anche qui si votano delle coalizioni (o giù di lì), ma al governo ci va Letta sostenuto da una maggioranza mista, che nessuno aveva proposto agli italiani. Lo stesso dicasi per il governo Renzi, che nasce con fiducia parlamentare votata dal suo partito più una nutrita pattuglia di eletti con Forza Italia.

 

Insomma le coalizioni sono state da tutti sventolate prima delle elezioni e brutalmente abbandonate dopo, cedendo il passo ai peggiori istinti trasformisti che albergano nelle assemblee elettive. Purtroppo l’evidenza empirica dimostra che queste compagini sono come le città costruite per i film western: ci sono soltanto le facciate delle case, perché quello serve a girare le scene (cioè celebrare le elezioni). Poi vale tutto, soprattutto vale farsi beffe della volontà popolare, che naturalmente viene richiamata ad ogni pié sospinto con enfasi tragicomica. Cosa serve allora per la prossima tornata elettorale, visto che bisogna armonizzare la legge (tagliuzzata dalla Consulta) con cui andremo a votare? La risposta non è così complessa.

 

L’ideale sarebbe un sistema di tipo francese, che ha innumerevoli pregi (e che peraltro da noi funziona egregiamente per i comuni), cioè elezione diretta della massima carica istituzionale con sistema a doppio turno. Però questa oggi è fantascienza, perché nel Parlamento in carica non c’è modo di votare una riforma così importante (dalle pesanti implicazioni costituzionali).

Resta allora una legge proporzionale con significativa soglia di sbarramento (ad esempio il 5 per cento). Quel che conta insomma è serietà verso gli elettori. Meglio veder nascere un governo con maggioranza che si crea dopo il voto, con ogni partito che si assume le sue responsabilità, piuttosto che evocare per l’ennesima volta il fantasma triste e truffaldino della coalizione. Ci pensino seriamente anche quei gentiluomini come Giuliano Pisapia che, pur con intenti nobili, cercano di riportarci lì. Serenamente: abbiamo già dato.