La confusione di Di Maio in politica estera
Vizi ideologici (il fascino per il Venezuela!) e sciatteria. Seguendo il filo rosso del leader 5 stelle si scoprono influenze e ispirazioni. E per lui la guerra all’Isis è sbagliata
Roma. Ieri la Stampa ha pubblicato un’intervista con Luigi Di Maio, che è considerato il candidato premier del Movimento cinque stelle alle prossime elezioni. Di Maio ha provato a spiegare le sue posizioni in politica estera, ma il tentativo di spiegazione non è riuscito: invece che chiarire, le sue risposte complicano. Prendiamo la questione della guerra all’Isis: “Il Movimento condivide le operazioni militari a Mosul e Raqqa?”. Di Maio risponde: “No, non risolvono il problema. Il saldo delle iniziative militari è sempre negativo, perché colpiscono i civili. Condanniamo tanto gli interventi di Putin, quanto quello recente di Trump in Siria”. Se le sue parole sono state riportate con fedeltà, allora il Movimento cinque stelle è ancora terribilmente vago e fumoso quando si parla di un tema chiave della politica estera. Come si sa, lo Stato islamico è un gruppo estremista che controlla parti dell’Iraq e della Siria e organizza e ispira attacchi terroristici in tutto il mondo. Non è intenzionato a negoziare una pace, perché aderisce a una interpretazione del Corano che non lascia spazio a compromessi: chiunque si opponga all’espansione del Califfato globale regolato dalla sharia dev’essere spazzato via. Chi non fa parte dello Stato islamico ha due sole opzioni: o si converte all’islam oppure combatte. I cristiani, in quanto monoteisti e popolo del Libro, hanno a disposizione una terza via in questa visione apocalittica: sottomettersi, consegnare le armi e le libertà politiche e pagare una tassa. Questo è il contesto, come è spiegato dallo stesso Stato islamico. Da tre anni l’esercito iracheno – appoggiato da aerei e forze speciali occidentali – combatte per riprendere il paese e ora è arrivato a Mosul, ex capitale di fatto dello Stato islamico. Più a ovest, in Siria, una forza mista di curdi e arabi, anche questa appoggiata dall’occidente, assedia Raqqa, l’altra capitale del gruppo.
Dire di non condividere queste operazioni militari in corso a Mosul e Raqqa vuole dire di fatto non proporre nulla di concreto contro lo Stato islamico – che intanto resiste con tutte le conseguenze disastrose che ne derivano: per esempio le persecuzioni contro le minoranze religiose, il rischio di attentati (gli attacchi di Parigi nel novembre 2015 furono organizzati a Raqqa), le ondate di profughi (come quella causata dall’offensiva su Kobane nell’inverno 2015). Di Maio propone di “togliere i viveri” allo Stato islamico: i paesi che comprano petrolio di contrabbando dall’Isis devono smettere, e così anche le fondazioni benefiche che lo finanziano sottobanco. Ma si tratta di una proposta disinformata: l’allusione alla Turchia che comprerebbe greggio dall’Isis è inspiegabile, perché ormai il gruppo terrorista non ha più un confine in comune con la Turchia già dall’anno scorso. Il contrabbando di greggio avviene su camion, ma non funziona più proprio perché il gruppo è ormai assediato grazie alle operazioni militari che Di Maio “non condivide”. Riguardo alle fondazioni benefiche, l’Isis si distingue dagli altri gruppi terroristici proprio perché riusciva a sostenersi senza aiuti esterni, ma grazie a un’economia di saccheggio e all’export illegale. La proposta di togliere i viveri, come spesso accade, suona profonda ma è uno slogan senza un vero significato. Pure la postilla finale, “condanniamo tanto gli interventi di Putin, quanto quello recente di Trump in Siria”, è stata fatta forse per apparire equidistante da Mosca e Washington ma non c’entra con la domanda. Putin non è impegnato a Mosul e a Raqqa, e “il recente intervento di Trump” non è che la continuazione di una politica dell’Amministrazione Obama che va avanti dal 2015, ovvero creare un fronte di forze anti Isis nel vuoto lasciato dal governo Assad nel nord-est del paese, per arrivare da Kobane – che è sul confine turco – fino a Raqqa. A proposito di Kobane: senza la lotta dei curdi locali e l’appoggio degli aerei americani sarebbe stata presa dall’Isis nel 2015, oggi è tornata a vivere, ci sono cantieri, negozi, scuole aperte. Di Maio dice che “il saldo delle iniziative militari è sempre negativo, perché colpiscono i civili”, ma se i curdi non si fossero difesi, oggi Kobane sarebbe inglobata in un tratto di confine lungo cinquecento chilometri ancora in mano allo Stato islamico – che invece è stato costretto ad abbandonare tutto quel territorio.
Un’altra risposta che non chiarisce, anzi complica, è quella sulla strategia da adottare in Libia. Dice Di Maio che Fayez al Serraj non è un interlocutore credibile e che neanche lo sono i paesi occidentali che hanno interessi petroliferi nel paese, e che ci vorrebbe una conferenza di pace mediata da paesi senza interessi come quelli del gruppo Alba. Alba è la sigla di Alleanza bolivariana per le Americhe, un’alleanza di paesi sudamericani minori guidata da Venezuela e Cuba. Il Venezuela – che il Movimento cinque stelle considera un paese modello, alcuni suoi rappresentanti sono stati invitati di recente dal governo di Nicolás Maduro – in questo momento è alle prese con una sommossa popolare che ha fatto più di trenta morti in meno di un mese, perché i negozi sono vuoti e mancano generi indispensabili come il pane, il latte, la carta igienica (servirebbero forse mediatori libici tra manifestanti e polizia). L’inflazione per quest’anno potrebbe superare il milleseicento per cento. Inoltre il Venezuela è un paese petrolifero, anzi, ha le riserve di greggio più grandi del pianeta: è interessato per definizione a cosa succede in Libia, che è un altro paese petrolifero. Infine il Venezuela fa parte della sfera d’influenza russa. Mosca è molto attiva in Libia e sostiene con forza l’est del paese, la Cirenaica del generale Khalifa Haftar. Come si fa a proporre il Venezuela come paese mediatore?