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Quadriglia per bravi, rancorosi e banali

Giuliano Ferrara

Quattro tipi italiani per capire il bene, e il malaccio, del paese. Le strade parallele di Gentiloni e Letta Jr. che divergono quando il Conte sceglie l’interesse nazionale, e l’altro meno. La coerenza rusticana di Verdini e le soddisfazioni di Alfano

C’è una quadriglia di tipi italiani da tenere sotto osservazione con la solita nostra benevolenza di tratto. Si tratta di Paolo Gentiloni, presidente del Consiglio; Enrico Letta, ex presidente del Consiglio; e poi Angelino Alfano, già segretario di Berlusconi, ministro dell’Interno e degli Esteri in vari governi per cinque anni, designato inizialmente dal Cav., infine senza e contro Berlusconi, e Denis Verdini, il grande facilitatore del patto del Nazareno uno e bis, tra Berlusconi e Renzi, e battistrada delle leggi elettorali bocciate in corso di valutazione.

 

In che cosa differiscono Gentiloni e Letta Jr.? Sono persone perbene. Hanno studiato. Appartengono a diverso titolo all’élite dirigente italiana, con esperienze concentrate nell’ambito della sinistra, una ispirazione riformista e di governo, poca retorica e molta operatività. Il primo è stato parte essenzialmente di due progetti politici. Con Rutelli a Roma per due mandati, era uno dei pilastri del buongoverno di cui si è perso il ricordo. Miliardi e miliardi spesi senza scandali e senza esiti truffaldi per risistemare la capitale giubilare. Lavoro in generale fatto di preparazione e intelligenza, con risultati eccellenti. L’altro progetto politico è quello di Renzi. Gentiloni è della squadra, sa stare di lato e poi prendersi il proscenio alla Farnesina e a Palazzo Chigi. Non lavora per sé, come si dice. Nel senso che coltiva legittime ambizioni anche personali, come ogni politico che si rispetti, ma sa misurarle su un’idea non banale, non vanesia, dell’interesse generale, e del progetto politico particolare al quale aderisce, con la sua leadership, e del paese in cui abita, e al quale porta un certo affetto. Un po’ come nel suo campo Pier Carlo Padoan, che come tipo italiano andrebbe paragonato a Giulio Tremonti, giocoliere e spericolato titolare di ambizioni sbagliate. Gentiloni, ora che si è arrivati a un passaggio delicato, la reviviscenza del Nazareno e una decisione corale di affrettare il voto per dare un governo al paese in forma più o meno stabile, a seconda di come voteranno gli elettori con una legge proporzionale corretta alla tedesca, l’unica possibile dopo il disastroso esito del referendum del 4 dicembre scorso, ora Gentiloni non si sbraccia, non chiede appoggi esterni per l’insensata parola d’ordine della stabilità da ottobre a febbraio, e relative sciocchezze su finanziaria e debito pubblico e mercati eccetera, non dà affatto l’impressione di essere un politico qualunque voglioso di restare attaccato alla sua carica e spregioso dei dati effettivi della politica italiana.

 

Enrico Letta avrebbe potuto comportarsi allo stesso modo in circostanze analoghe. Quando era presidente del Consiglio, e Berlusconi fu colpito da una sentenza definitiva che grida vendetta ancora oggi ma ebbe i suoi effetti grotteschi da subito, Letta Jr., che pure affermava di scoppiare dalla voglia di guidare uno schieramento alternativo alla destra, si rinserrò nel governo di unità nazionale costituito con i voti e il consenso e le nomine ministeriali di Berlusconi, ma lasciò che Berlusconi se ne andasse insalutato ospite, e si disse all’improvviso molto felice di avere una maggioranza più ristretta, con i transfughi ministerialisti del Cav., e di poter lavorare con il suo cacciavite basso-europeo. Si disinteressò anche delle primarie nel suo partito, che Renzi e con lui Gentiloni e altri vinsero a mani basse dopo aver perso le precedenti. Di conseguenza, in corrispondenza a una vecchia non ignobile idea coltivata in solitario dall’ex sindaco di Firenze, cioè che bisognava poter lavorare anche con Berlusconi sulle regole e non si doveva agire per mandarlo in galera ma per emularlo e competere e possibilmente batterlo politicamente, Letta si trovò spiazzato dal Nazareno, e in un batter d’occhio fu sollevato dall’incarico di presidente del Consiglio, e fu così poco sereno che si comportò da cattivo perdente, fece smorfie al passaggio delle consegne e della campanella, si ritirò dal Parlamento, andò a Parigi dove generosamente gli fu offerto di insegnare la politica (chi sa fare fa, chi non sa fare insegna: lo diceva Clausewitz). Adesso è tornato alla carica con i giornali compiacenti, le interviste a raffica, l’alleanza con lo spompato gran signore del laticlavio e della tecnocrazia Mario Monti, e batte e ribatte, e dice che aveva ragione lui, che è tutto un fallimento, ma che non si deve andare a votare, e magari spera che un Gentiloni gli si affianchi e resista a Palazzo Chigi come fosse una fortezza personale. Letta Jr. fu capace di crescere come quadro macroniano, amico e araldo delle banche di sistema e di sinistra cattolica, operò per formare una classe dirigente di riferimento, animava associazioni tecnoprogettuali e lobbistiche, a trent’anni non mostrava la vocazione al rancore, al cinismo, alla colonizzazione della politica da parte del non-politico, del finanziario, del tecnico. Poi è cambiato, ed è divenuto come tipo italiano l’opposto simmetrico di Gentiloni, un uomo voglioso e insoddisfatto laddove il conte Silveri o come si chiama è un aristocratico con il senso dei tempi lunghi della politica e del progetto über Alles.

 

Della quadriglia fanno parte, come scrivevo, anche Alfano e Verdini. I due hanno fatto i passi decisivi in politica con Berlusconi, collaborando con lui. Uno veniva da Agrigento, e aveva con sé un corteggio di strani tipi. Diceva sempre sissignore, e piegava la schiena un pochino in segno di deferenza, non era esente dal morbo insinuante dell’adulazione cortigiana. L’altro veniva da Firenze, ed è diventato amico di Renzi, legato di Berlusconi presso il renzismo, e protagonista della staffetta inaudita ma interessante tra il capo del centrodestra che aveva battuto i vecchi e inutili leader della sinistra in attesa che qualcuno li rottamasse definitivamente, ciò che poi come noto è avvenuto. La staffetta era nelle cose ed è stata elaborata allo scopo di rilegittimare il Cav. odiosamente cacciato dal Senato, mandare Renzi al governo e realizzare una legge elettorale maggioritaria con ballottaggio e monocameralismo. Sappiamo come è andata, tra baruffe per il Quirinale e referendum dell’accozzaglia. In tutto questo periodo, pagando il prezzo di uno sputtanamento per mano dei magistrati d’assalto, e dipinto come il male assoluto dalla cricca della stampa andante, Verdini è stato linearmente legato al progetto politico di fondo, e i suoi transfughismi hanno sempre avuto un senso politico chiaro, e sono stati gestiti con competenza in tutti i passaggi decisivi della legiferazione elettorale e istituzionale, fino al Nazareno bis del sistema alla tedesca. Non so se Verdini rientrerà e come in Parlamento, e non è chiaro se la sua stamina che è notevole resisterà all’assedio, ma sono certo che continuerà a fare politica con passione e si difenderà con le unghie e con i denti, non per avere cariche che non ha cercato in tutto questo tempo ma per avere, come direbbe un tenore di Mascagni, ampia e completa soddisfazione. La soddisfazione cercata e ottenuta da Alfano, corrispondentemente alla sua natura o carattere e al suo profilo curricolare, è stata quella di occupare due ministeri decisivi, régaliennes dicono i francesi, per cinque lunghi anni, e dovunque portasse il vento lui era lì, fermo come una quercia, a emettere comunicati in cui elogiava un’arte di governo che nessuno al mondo poteva mai riconoscergli. Il risultato è che piagnucola perché ha paura di non sforare la barriera tedesca del cinque per cento alle elezioni. Ecco: una quadriglia di tipi italiani che dice molto sul bene, sul malaccio e sul banale di questo paese.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.