"Spiace per i liberisti, ma è giusto parlare del ruolo dello stato azionista"
Ci scrive il presidente della X Commissione (Industria, Commercio e Turismo) del Senato della Repubblica
Al direttore - Troppa grazia: Alfredo Macchiati e Carlo Stagnaro che inarcano il sopracciglio di fronte al presidente della commissione Industria del Senato reo di aver organizzato un convegno sullo stato azionista. Riunione tendenziosa, dice Macchiati: non c’erano liberisti a contestare il Beneduce 4.0 come invece si dovrebbe in ogni dibattito. Convegno sbagliato, aggiunge Stagnaro: ci si è occupati della proboscide (le imprese a controllo pubblico che interessano i soci) e non dell’elefante (il mercato, di interesse generale). Che dire? Anzitutto, che i lettori del Foglio non hanno avuto informazioni su quanto, in realtà, è stato detto e da chi il 22 maggio a Palazzo Giustiniani. Non dal Foglio, e questo ci sta, essendo il Foglio un giornale d’opinione. Ma neanche dai quotidiani di informazione, e questo ci sta un po’ meno, non tanto in relazione al convegno quanto al tema che dovrebbe essere oggetto di inchieste e commenti ben più incisivi, e tuttavia anche questo “errore” ci sta in nome della libertà. Ciononostante, sapere serve. E così rimedio come posso a beneficio dei foglianti: sul sito della Commissione sono online le relazioni introduttive, le presentazioni degli economisti Coltorti, Florio e Mosconi e il video dell’intero convegno.
Chi avrà voglia di verificare troverà che il meeting di Palazzo Giustiniani era stato organizzato non solo da chi scrive ma anche da Domenico Bodega, preside di Economia alla Cattolica di Milano, politica e accademia dunque, non solo politica, ed era stato presentato coram populo come l’ideale prosecuzione dell’analisi dei risultati delle principali società partecipate dallo stato, fatta dalla commissione Industria, e della risoluzione, approvata dal Senato, che impegna il governo a esercitare un po’ meglio il ruolo dello stato azionista.
Quella mattina di studio, dunque, non aveva l’obiettivo di discutere se lo stato debba o non debba detenere partecipazioni in società importanti. Tale questione sta a cuore a Macchiati e a Stagnaro? Lo capisco. E apprezzo pure il loro coraggio nel contestare a priori un’iniziativa politico-culturale sgradita anche contro il loro personale interesse, avendo lavorato Macchiati per svariate aziende a partecipazione statale, e facendo parte Stagnaro della segreteria del ministro Carlo Calenda, che ha concluso il convegno da loro contestato in radice. Capisco e apprezzo, ma sarà pur possibile ritenere prioritario affrontare con spirito critico il ruolo dello stato azionista nel momento in cui nessuno ormai, tra quanti hanno o ambiscono ad avere responsabilità di governo, intende cedere il controllo di Eni, Enel, Leonardo, Fincantieri, Saipem, Poste Italiane, Snam, Terna, Enav, St Microelectronics, Ferrovie, Anas e certo ne dimentico qualcuna. La stessa Unione europea, del resto, nulla eccepisce su questa circostanza purché le aziende a controllo pubblico rispettino, al pari delle private, le regole del mercato unico. Punto sul quale, ovviamente, nessuno ha da ridire, fatta salva la libertà di criticare le regole che si ritengono sbagliate. Per esempio, il bail in bancario.
Il fatto è che la pressione mediatica degli opinion maker liberisti, tuttora prevalenti nei media più influenti, determina effetti diversi da quelli di vent'anni fa. Giavazzi e Alesina non vengono più letti da Prodi, Ciampi e D’Alema, che decise di liquidare l’Iri ancorché fosse ormai risanato. E nemmeno da Berlusconi e Tremonti. I lettori di oggi sono Gentiloni, Renzi e Padoan. Oggi, la pressione liberista impatta su una politica ignorante e avida di potere personale, quando si crede forte, ovvero impatta su una politica debole, quando pure sia informata e disinteressata. L’effetto è un’impasse paradossale. Lo stato non cede più il controllo di nulla, ma nemmeno si occupa, come farebbe un azionista serio, di quello che ha. Gli bastano le nomine e i dividendi, e per averli si rivela spesso un socio rapace, privo della volontà di collegare il ruolo di azionista che persegue politiche industriali lungimiranti a quello di promotore della concorrenza, due ruoli che si ricompongo nell’interesse generale. I governi risultano inetti, perché proiettati sul breve termine, disordinati, senza adeguate professionalità. Il che genera un ulteriore effetto, minore ma non troppo: uno stato azionista siffatto diventa comodo per il management delle imprese parastatali. In corso di mandato, il management fa quello che vuole senza rispondere a una holding pubblica tipo l’Agence des Participations de l’Etat, ma alla parte politica o alla camarilla relazionale alla quale deve la poltrona; poi, a fine mandato, può lucrare buone uscite incomprensibili perché, se era stato così valoroso da ricevere trattamenti principeschi, non si capisce la ragione per cui lo si debba mandar via.
Un governo forte e serio definisce e ridefinisce il contesto giuridico e regolatorio nel quale lo stato azionista possa operare al meglio al duplice fine di creare valore sostenibile nel tempo per il complesso degli stakeholder e di promuovere la concorrenza in relazione alle necessità del paese, tra le quali c’è la protezione del consumatore e non il favore reso all’Enel e agli altri incumbent dal ddl concorrenza (che tuttavia va approvato subito e poi, semmai, migliorato con un decreto). In questo quadro, il governo chiarisce quale debba essere la missione della stessa Cassa depositi e prestiti: se il suo bilancio sia adeguato e se debba privilegiare il ritorno sul capitale anche più di un’impresa privata o se debba perseguire obiettivi di politica industriale, certo senza perdere soldi. Giusto per personalizzare, non può essere indifferente passare da una presidenza Bassanini a una presidenza Costamagna, da un giurista politico a un ex Goldman Sachs, da parte dello stesso governo, e senza spiegazioni. Non è banale se si assumono banker e non anche ingegneri. Varrebbe la pena di capirne di più, conti alla mano, senza criminalizzare niente e nessuno. Poi, torneremo a disquisire dei nipotini di Colbert e di Adam Smith. Dopo aver evitato che, mentre disquisiamo, si facciano affari e si elargiscano prebende all’ombra dello stato azionista.