Fassino ci spiega il lato ridicolo di chi urla "inciucio"
Legge elettorale, Grillo e responsabilità di Appendino. Parla l’ex sindaco di Torino
Roma. Piero Fassino, ex sindaco di Torino, è molto preoccupato per la piega che stanno prendendo le cose nella sua città. I 1.500 feriti durante la finale di Champions League sono una conseguenza indicativa di un certo modo di amministrare, dice Fassino al Foglio: “C’è stata una sottovalutazione del rischio a cui era sottoposto questo evento. Chiara Appendino ha cercato di giustificarsi dicendo di aver fatto ciò che si è sempre fatto in passato. Non è vero: l’organizzazione della finale tra Juventus e Barcellona nel 2015 era molto diversa e più sicura, ma quand’anche fosse stato fatto ciò che si è fatto nel passato, l’errore sta proprio lì. Dal 2015 a oggi ci sono stati Charlie Hebdo, Bataclan, Nizza, Berlino, Manchester, Londra. C’è stato un salto di qualità del rischio determinato dall’offensiva terroristica e un salto di qualità nell’inquietudine e nella paura dei cittadini. Al minimo atto scatta il panico, com’è avvenuto appunto a Torino. Tutto questo richiede che all’innalzamento della soglia del rischio corrisponda l’innalzamento delle misure di prevenzione”.
Oltretutto, da parte sua “non c’è stato nessun atteggiamento di umiltà, non una parola di scusa verso la città, non una sola ammissione di inadeguatezza del sistema di prevenzione. Appendino continua a invocare il ‘destino cinico e baro’, ma un sindaco non si comporta così; si assume le responsabilità anche quando pensa di non avere colpa, in virtù del suo ruolo istituzionale. Invece, ogni volta che c’è una difficoltà, la responsabilità è di qualcun altro, mai sua. Questa è una manifestazione di superbia nei confronti dei cittadini che penso vada stigmatizzata, perché riconoscere un errore è il primo passo per non ripeterlo in futuro”.
Questo episodio, aggiunge Fassino, “dimostra quanto sia fasullo il mito della Appendino come ‘ buon sindaco’, alimentato in questo primo anno grazie alle due rendite di posizione. La prima deriva dalla comparazione con la Raggi. L’amministrazione di Roma è talmente disastrosa che se la Appendino non muove un dito sembra una statista. La seconda deriva dal fatto che ha ereditato una città in piedi, amministrata bene, con riconoscimenti nazionali e internazionali. Alla prima vera prova in cui doveva dimostrare la sua capacità, questo mito si è dimostrato fasullo”. In questo primo anno, dice Fassino, “non si è vista una visione, un progetto, per la città. Non c’è un’idea nuova per il futuro di Torino. Finora insomma c’è stata una mediocre ordinaria amministrazione e oggi la città rischia di diventare più piccola e più marginale, mentre a 100 chilometri c’è Milano, che grazie alla spinta di Expo vive un periodo di grande rilancio”.
Chiara Appendino (foto LaPresse)
Si pensi per esempio alla cultura, dice Fassino. “Durante la mia amministrazione avevamo fatto grandi investimenti, perché la cultura non è un fattore aggiuntivo del modello di sviluppo ma ‘costitutivo’, nel senso che la cultura determina un maggior grado di attrattività di una città. Oggi quando un’impresa deve allocare investimenti, guarda alla qualità della vita del territorio, non solo alla capacità di produzione. La cultura non è il lusso superfluo da tagliare ogni volta che c’è un problema, come invece sta facendo Appendino”.
Arriviamo all’attualità politica. Fassino, che ne pensa della legge elettorale in votazione alla Camera? “Intanto finalmente si arriva a una legge elettorale condivisa. Io penso che sia un valore oggi sottovalutato, perché tutta la mia generazione è stata educata a un principio secondo cui le regole del gioco – non la competizione, naturalmente – si condividono. Tutte le leggi elettorali, fino a che non è arrivato Calderoli, sono state approvate con larghissima condivisione. Ed è importante perché se le regole sono condivise, saranno riconosciute dai giocatori; se invece non sono condivise, ogni volta un giocatore le metterà in discussione. La legge Calderoli invece rappresentò un vulnus perché approvata solo dal centrodestra. Anche l’Italicum soffriva di questo limite. La legge che sarà approvata probabilmente non è la migliore possibile. Io avrei preferito il Mattarellum, ma quella che adesso si sta per approvare è l’unica legge che può essere largamente condivisa, tiene conto dei diversi punti di vista e realizza la mediazione possibile. Bisogna che ci liberiamo di una stortura culturale che si è affermata negli ultimi anni, e cioè che qualsiasi mediazione è un inciucio. Se fossero esistiti i giornali di oggi negli anni della Costituente, noi non avremmo avuto una Costituzione. Ogni articolo sarebbe stato accusato di inciucio. Mentre invece non c’è articolo della Carta, a partire dal primo, che non sia stato frutto di un confronto, di una discussione, di una sintesi di compromesso. Si pensi agli articoli sulla proprietà privata o sulla scuola, o sulla libertà religiosa. O all’articolo 11, sempre invocato quando c’è una missione militare che coinvolge l’Italia. Persino sull’assetto parlamentare nel dibattito costituente c’erano tre proposte: Calamandrei proponeva una sola camera, altri proponevano due camere con competenze differenziate, altri ancora due camere con competenze analoghe. Così come parlare di leggi da non tradire è sbagliato. Bisognerebbe parlare di leggi che sarebbe indispensabile approvare prima della fine della legislatura. Parlare di inciucio, tradimento, inganno trasmette ai cittadini un’idea degenerata della politica e contribuisce solo a rompere il rapporto di fiducia tra cittadini e politica. C’è una responsabilità che riguarda anche il sistema dell’informazione e le parole che vengono usate”.
A proposito di “inciucio”, la possibilità di un governo tra Pd e Forza Italia ha suscitato un dibattito interno al centrosinistra. Lo stesso Romano Prodi ha mostrato il suo disappunto, per usare un eufemismo. “A me pare curioso che l’Italia sia l’unico paese al mondo dove si pretende di decidere chi governerà e con che alleati prima delle elezioni. In Germania la Merkel sta battendo tutte le piazze tedesche chiedendo i voti per la Cdu. Non spende una parola per dire con chi si alleerà, perché punta a massimizzare il suo voto. La stessa cosa sta facendo Schulz. Sulla base dei risultati elettorali, ciascuno deciderà poi le alleanza per il governo. In Francia, Macron non sta dicendo con quali alleati reggerà il suo governo nell’Assemblea nazionale, perché spera di avere una maggioranza autosufficiente. E tutto questo alla luce del sole. La trasparenza è un valore anche dopo le elezioni, non solo prima. Dunque io dico che il Pd deve far campagna elettorale chiedendo voti per il Pd, per essere il primo partito e guidare l’Italia. E non rinuncio a priori alla possibilità che il centrosinistra possa avere una maggioranza autosufficiente. Poi, sulla base dell’esito elettorale, valuteremo a quale governo dare vita con una discussione trasparente e io dico anche con forme di consultazione dei nostri elettori. Anche perché le alleanze si fanno sulla base dei programmi. Quando in Germania la grande coalizione è stata considerata l’unica forma di governo possibile, il negoziato non è durato due minuti ma 45 giorni. E a nessun giornale tedesco è mai venuto in mente di parlare di inciucio”.
Grandi coalizioni e maggioranze possibili
La cosa curiosa, osserva Fassino, è che si chiede al Pd se si alleerà con Forza Italia, “ma nessuno chiede a Grillo, che ha sempre sostenuto di volere l’autosufficienza e che oggi invece, se vincesse probabilmente sarebbe costretto a un’alleanza, con chi farebbe il governo. Lui naturalmente ci direbbe di puntare a essere autosufficiente, poi vedrà. E perché questa risposta è buona per Grillo e non per il Pd?”. Naturalmente il M5s oggi potrebbe allearsi solo con la Lega. “Ma io ce lo voglio vedere il M5s, che è un impasto populista particolare rispetto ad altri movimenti europei, metà Le Pen e metà Mélenchon, a stare insieme alla Lega. La componente di sinistra di Cinque stelle direbbe a cuor leggero sì a Salvini, per esempio sull’immigrazione? Comunque, io penso che questo ragionamento sia sbagliato alla base; non si possono decidere i governi prima ancora che la gente abbia votato. Anche perché spesso le alleanze successive alle elezioni sono figlie di uno stato di necessità. Le grandi coalizioni si sono prodotte laddove non c’era un’altra maggioranza possibile, ma non sono mai state una proposta politica avanzata dai partiti prima delle elezioni”. Nel Pd, intanto, si discute. Prodi, Rosy Bindi, Walter Veltroni, mostrano segni di scoramento sul futuro della sinistra.
“Le ragioni di un confronto ci sono tutte e bisogna guardare a un orizzonte non solo nazionale. C’è un grande tema. La vittoria di Trump e quella di Macron segnano la fine della politica del Novecento, dei suoi paradigmi, delle sue forme e delle sue categorie. Questo passaggio, così critico e difficile, è particolarmente evidente se guardiamo alla sinistra europea. In Olanda non hanno vinto i populisti, ma il partito laburista che è stato per decenni la principale forza di governo è passato dal 28 al 5 per cento. La forza progressista che ha preso più voti è un movimento verde. In Austria i populisti hanno perso per tre punti percentuali, ma le elezioni non le hanno vinte un candidato socialdemocratico bensì un verde con un profilo più largo e più civico. In Germania io continuo a tifare per il mio amico Schulz, ma i sondaggi dicono che la Merkel è al 39-40 percento, mentre Schulz al 25 e la Spd arranca. In Francia la rottura dello schema bipolare ha travolto il partito socialista e un pezzo significativo degli elettori socialisti è andato su Macron, e non solo per battere la Le Pen. In Spagna il partito socialista vive un periodo travagliato. Segnalo che il Pd con tutti i suoi guai e i suoi problemi è quello che oggi ha maggior consenso tra i partiti della sinistra europea. Dunque io dico che c’è un tema: come rappresentare la sinistra e il campo delle forze progressiste in questo secolo che non è il Novecento”.
C’è, insomma, la necessità di rifondare il campo delle forze progressiste europee. “Lo dico con molta umiltà e prudenza. Dieci anni fa fondando il Pd ci ponemmo l’obiettivo di dare una nuova forma e una nuova identità alla rappresentanza del campo progressista. Serviva un partito nuovo con un pensiero nuovo per un secolo nuovo. Oggi si pone analoga sfida su scala europea. Per le elezioni del 2019 Renzi ha lanciato la proposta, e il Pse l’ha accettata, delle primarie per scegliere il candidato presidente della commissione europea. Se non allarghiamo il campo oltre la sola famiglia socialista, quel candidato rischia di avere meno chance di vittoria. Servono invece delle primarie con un campo progressista ampio, che parli ai verdi, a forze democratiche e a forze della sinistra. Insomma, serve in Europa un’innovazione analoga a quella che si fece in Italia con la costituzione del Pd. Se noi manteniamo questa impostazione, il Pd torna ad avere un ruolo e penso che a 10 anni dalla sua nascita serva una riflessione che rilanci ragioni e obiettivi del nostro progetto. Dieci anni fa l’atto di fondazione del Pd fu guardato quasi come una presunzione o una velleità. In dieci anni è cambiato tutto intorno a noi e oggi possiamo ben dire che abbiamo fatto bene a fondare questo partito. E nel momento in cui l’Europa è a un bivio ed è chiamata a rifondare la sua stessa identità serve un grande soggetto riformista e progressista europeo che la guidi. Un obiettivo ambizioso a cui il Pd deve concorrere con determinazione”.