Giravolte, incoerenze e colpi bassi. I Gattopardi del maggioritario
Si archivia l’ennesimo fallimento della politica sulla legge elettorale. Ma anche nel Pd ci sono i franchi tiratori
Al direttore - Oggi, con la clamorosa decisione del Movimento 5 stelle di impallinare la riforma elettorale e, ancor più grave, il faticoso quanto importante accordo raggiunto tra le maggiori forze politiche, si archivia l’ennesimo fallimento da parte della politica su questo tema. Ciò detto, non torna meno utile riflettere sulle dichiarazioni di autorevoli esponenti del Pd e della ex minoranza che in questi giorni sono arrivate puntuali come un orologio per contestare l’impronta proporzionalista della legge, rivendicando con veemenza, al contrario, la necessità di un sistema maggioritario.
Mi corre quindi l’obbligo di fare una premessa, indispensabile per non perdere il filo del discorso: chi mi conosce sa perfettamente che sull’urgenza per il paese di dotarsi di una legge elettorale seria e a prova di rilievi della Corte Costituzionale ho speso tutte le mie energie, fisiche e mentali, compatibilmente con quanto le possibilità e il ruolo potevano consentirmi. Ho considerato il Porcellum una porcata vera e mi sono battuto affinché chi aveva responsabilità di partito e di governo fosse conseguente ai proclami quotidiani, impegnandosi realmente a metterlo in soffitta. L’ho fatto anche perché sono un convinto sostenitore del maggioritario e, pur non avendo cambiato idea, tengo sempre a mente che la politica non si esprime né traducendo i desiderata di una sola parte né navigando placidamente in condizioni di vento ideali, ma si fa con quello che c’è, con ciò con cui la realtà ti impone di fare i conti.
Chi in questi giorni insisteva nel perseguire l’opzione maggioritaria stava sostanzialmente compiendo la mossa del Gattopardo, ovvero fingere di voler cambiare tutto affinché tutto restasse com’era. Poiché è ormai evidente che su questo punto non vi era alcuna possibilità di accordo nel quadro politico attuale (e lo dimostra il no al Rosatellum, che sostanzialmente aveva un’impronta maggioritaria con una quota più larga di proporzionale), continuare a insistere sul maggioritario significava di fatto ritrovarsi con il “male peggiore” (ovvero il proporzionale puro determinato dalle sentenze della Corte, fortemente disomogeneo peraltro tra Camera e Senato) anziché con il “male minore”, cioè il sistema alla tedesca, con un proporzionale sensato, una parte di collegi uninominali e soprattutto omogeneo tra i due rami. Questo è il quadro e questa la premessa.
Durante l’ultima direzione del Pd ho ascoltato la collega Zampa lamentare che con la legge sulla quale era stato raggiunto l’accordo saremmo tornati “indietro di 20 anni, alla casella di partenza. Per il Pd è la perdita di una delle sue ragioni costitutive”. A parte che si può discutere sul fatto che il sistema tedesco non garantisse tout court la possibilità di formare maggioranze solide e autosufficienti (ricordo a tutti che comunque la mettiamo senza prendere i voti necessari non si vince) credo che interessi di più soffermarsi sui 20 anni a cui fa riferimento la collega, sulla deriva proporzionalista che secondo alcuni esponenti della minoranza ed ex Pd sarebbe stata rappresentata dall’accordo tra Renzi, Berlusconi, Salvini e Grillo.
Ci sarebbe da ridere se non piangere. Ricordo a me stesso che il Porcellum è del 2005 e che, pur essendo considerato dal Pd all’epoca come il male assoluto, da quel momento si è votato con quel sistema per ben tre tornate elettorali. In mezzo un governo di centrosinistra con - tra gli altri - Prodi, D’Alema, Bersani, Letta e una maggioranza chiara uscita dalle urne a differenza di quella attuale, che pur potendo cambiare la legge alla fine, ahimé, non l’ha fatto. Andiamo avanti e arriviamo al 2011, governo Monti. I partiti avevano un solo compito: riformare la legge elettorale per riportare il Paese alle urne e dare all’Italia un governo stabile che potesse fare le riforme. Il segretario del Pd di allora era Bersani, ma a quanto pare i famosi caminetti con Verdini e Migliavacca non partorirono soluzioni, tant’è che tra il doppio turno alla francese da una parte e il semipresidenzialismo dall’altra, alla fine non se ne fece nulla.
Pensate che all’epoca il Pd considerava le preferenze, proposte ulteriormente da Forza Italia, come l’anticamera della corruzione tanto che Bersani tuonò “con le preferenze ci mettiamo tra Tangentopoli e la Grecia”. Chissà se è lo stesso Bersani che poi pretese l’inserimento delle preferenze tra i correttivi all’Italicum e che le ha invocate per i listini corti della legge elettorale che era in piedi fino a ieri, ma forse si tratta di un sosia.
Meglio di lui però, in quanto a nostalgia del maggioritario, è Enrico Letta che dice: “Siamo al termine di una legislatura che non solo ha fallito le riforme istituzionali ma in cui nemmeno si è tornati al punto di partenza. Si torna indietro perché si gioca una partita su una legge elettorale peggio della Prima Repubblica, quando almeno si potevano scegliere i parlamentari. Questa volta nemmeno questo potrà essere concesso agli elettori italiani”. Cari lettori, ma si tratta forse dello stesso Enrico Letta che, dopo aver istituito un comitato di saggi per fare le riforme, da presidente del Consiglio pretese la bocciatura della mia mozione che chiedeva il ripristino del Mattarellum? Quella che votarono i Cinque Stelle e nessuno del mio partito? Non era forse quella un’occasione d’oro in cui si potevano tradurre in realtà anni di buone intenzioni? Evidentemente lo era per me, un po’ meno per quel Pd.
So bene quanto possa annoiare il puzzle delle giravolte della politica su questioni tecniche ma cruciali per la vita democratica di un paese. Ma qui c’è un problema di credibilità da parte di chi predica, di coerenza da parte di chi critica. Questa piccola ricostruzione è importante, perché testimonia come in questi anni i più grandi fautori del sistema maggioritario, pur avendone avuta l’occasione, non solo non hanno mai difeso quell’impianto ma anzi hanno contribuito artatamente a distruggerne l’essenza stessa, ammantandolo di una narrazione strumentale per finalità di pura lotta politica interna. Hanno mascherato, volutamente, l’idea di un sistema tramite cui determinare una maggioranza di governo stabile e con una leadership riconosciuta, spacciandola via via come un tentativo di affermazione leaderistica e autoritaria.
Lo dimostra chiaramente quanto è accaduto con l’Italicum: la minoranza del tempo, dopo aver preteso e ottenuto le preferenze e aver criticato il combinato disposto con la riforma costituzionale, ancora ieri - dopo aver bocciato il Rosatellum – ha imputato alla stessa persona (Renzi) a cui il 4 dicembre rimproverava tentazioni autoritarie (scongiurate, democraticamente, con tanto di brindisi) lo scadimento in una deriva proporzionalista. A Renzi. Capite, questa non è politica, sembra piuttosto un risiko in cui se uno fa una mossa avanti l’altro la fa indietro, dove la tattica predomina sulla strategia, dove quello che vale oggi non vale domani e che importa se poi i cittadini ci dicono che non siamo credibili. Ah, dimenticavo: ricordate che cosa è successo dopo che l’Italicum divenne legge? Tutti soddisfatti delle correzioni ottenute, felici per la strenua difesa delle preferenze al grido di “basta con i nominati”? Macchè! C’è bisogno di un modello alternativo. L’allora minoranza Pd raccolse le firme per presentare la loro proposta di legge elettorale, e sapete come la chiamarono? Indovinato. Mattarellum 2.0. A questo punto aspettiamoci anche il 3.
Roberto Giachetti è Vicepresidente della Camera e Deputato Pd