Mediare, non rottamare
Accerchiato, sabotato. Dietro il crac sulla legge elettorale ci sono le spie che indicano i veri guai del renzismo
“Quando si è visto dal tabellone, per un attimo, che i Cinque stelle stavano votando a favore dell’emendamento, quaranta o forse addirittura cinquanta di noi hanno colto la palla al balzo, e votato anche loro come i Cinque stelle”. E a ventiquattr’ore di distanza dal voto che a Montecitorio giovedì ha messo fine al tentativo di riforma elettorale, nel Pd comincia a emergere un racconto un po’ diverso da quello delle prime ore. L’incidente era ritenuto possibile, temuto. E il boicottaggio interno, la rivolta dei peones, delle seconde e terze file delle correnti interne al Pd era una delle preoccupazioni che il capogruppo Ettore Rosato aveva manifestato nelle riunioni, anche con Matteo Renzi. “Non solo tutti vogliono restare fino al 2018”, diceva Rosato, “ma li stiamo obbligando a votare una legge che mette molti di loro fuori dal Parlamento. Rischiamo di andare a sbattere”. E infatti: boom!
“Quaranta o forse cinquanta dei nostri”, dice allora al Foglio un sottosegretario renziano. E la rivelazione spalanca prospettive vertiginose. “Il fallimento è tutta colpa di Grillo”, dice Renzi. Ma poco meno di un quarto del gruppo parlamentare del Pd si è ribellato al suo segretario. E per un intreccio di ragioni: la voglia di restare in Parlamento ancora per un anno, la certezza quasi matematica che Renzi non li avrebbe ricandidati, il tentativo di non consegnargli una legge elettorale che attribuisce al segretario il controllo assoluto sulla compilazione delle liste. E poi, infine, come dice un membro della segreteria, “c’è il malanimo delle correnti, tra i tanti che sono stati esclusi dalla direzione nazionale”. E il diavolo, si sa, è soltanto quell’insieme di circostanze intrecciate che concorrono a materializzare una storia diabolica.
Adesso, caduta la riforma tedesca, a differenza di Sergio Mattarella, i collaboratori di Renzi non considerano necessario nemmeno il decreto per armonizzare i due sistemi elettorali di Camera e Senato che compongono il cosiddetto Consultellum. “Si può votare così”, dicono. E non solo perché, come spiega Stefano Ceccanti, “la Corte ha dichiarato autoapplicative le due sentenze”. Ma anche, forse soprattutto, perché, dice uno dei più leali collaboratori del segretario, “appena ci azzardassimo ad andare in Aula con un decreto, lo cambiano con un solo scopo: abbattere Renzi. Anche dall’interno”. Ed ecco il punto. La rivolta dei gruppi parlamentari e delle correnti, la sommossa di quei “quaranta o cinquanta” che giovedì hanno affossato la riforma elettorale, quei gruppi con i quali Renzi non ha saputo (o voluto) scendere a patti fino in fondo. Sospeso tra rottamazione e doroteismo, dopo la sconfitta referendaria del 4 dicembre, Renzi non ha trasformato “l’agilità della conquista nella robustezza della gestione”, come ha scritto Claudio Velardi. E’ rimasto in surplace. Ha smesso di fare il rottamatore, ma non si è nemmeno consegnato fino in fondo all’arte antica della politica: l’equilibrismo, la trattativa serrata, il baratto. Ed ecco allora la rivolta “dei quaranta o cinquanta”. Ecco il secondo botto dopo il referendum. E forse hanno ragione quei renziani che adesso, timidamente, dicono che “Renzi deve decidere chi è e cosa vuole fare con il Pd. Che non è detto debba rimanere il suo partito. Forse è tempo di andare oltre”. E difatti Renzi ora propone un’alleanza di centrosinistra, con Pisapia. Che quasi declina: “Se vuole la coalizione, facciamo le primarie”.