Elezioni amministrative 2017 (foto LaPresse)

Il voto ci dice che i populismi si combattono più con il buon senso che con l'algebra

Claudio Cerasa

Le amministrative riapriranno un dibattito a sinistra su vari temi gustosi quanto inutili. Coalizione o non coalizione? Nuovo Ulivo o nuovo Labour? Fesserie. Perché l’alternativa allo sfascismo non viene dalle alleanze ma dalla forza tranquilla della ragione

Come sempre accade all’indomani di un’elezione amministrativa, ciascun partito oggi tenterà di dimostrare di aver vinto le elezioni in modo palese e ciascun leader politico tenterà di dimostrare che i nove milioni di italiani andati a votare ieri in circa mille comuni non hanno fatto altro che certificare che la linea di ciascun leader è quella giusta e che dunque, mai come oggi, non bisogna interrompere un’emozione. Se c’è un messaggio che in realtà arriva dal voto di ieri, quel messaggio riguarda lo stato di salute del Movimento 5 stelle ma su questo punto torneremo domani con calma e proveremo a spiegare in che senso anche il nostro paese a poco a poco sta iniziando a reagire contro la casta degli incompetenti. Quale che sia il risultato finale delle amministrative non c’è dubbio che il tema politico che nelle prossime settimane catturerà l’attenzione di molti osservatori riguarda un dettaglio di questa campagna elettorale che suona più o meno così: laddove il centrosinistra si è presentato unito, il centrosinistra ha ottenuto dei buoni risultati, e se il centrosinistra riuscirà a presentarsi unito alle prossime elezioni politiche non c’è dubbio che possa ottenere dei risultati analoghi. È davvero così? 

Fuori dal politichese, è inevitabile che la somma tra la buona (seppur perdente) performance inglese di Jeremy Corbyn e i risultati (seppur contraddittori) delle amministrative di ieri porteranno in molti a chiedersi che cosa faranno, in Italia, i nostri Jeremy Pisapia e Matthew Renzi. Coalizione o non coalizione? Lista o non lista? Alleanza o non alleanza? Nuovo Ulivo o nuovo Labour? Primarie o non primarie? Nuovo Prodi o vecchio Renzi? Il dibattito ha certamente una sua centralità (che noi non vediamo) e un suo interesse (che noi non vediamo) e il tentativo di allargare il perimetro del mondo progressista diventerà con ogni probabilità un’arma per commissariare il segretario del Pd e imporre al centrosinistra un modello più simile a quello dell’Unione che dell’Ulivo. Matteo Renzi ha certamente un problema importante da superare che riguarda il numero impressionante di nemici che è riuscito a crearsi spesso da solo e da questo punto di vista riuscire a non litigare con una brava persona come Giuliano Pisapia, provando a costruire qualcosa con lui, potrebbe essere persino auspicabile nell’ottica di una leadership che prova a mettere in campo un ultimo disperato tentativo di vocazione maggioritaria.

  

Eppure ci permettiamo di dire a tutti gli osservatori che nei prossimi mesi spenderanno fiumi di inchiostro per dimostrare la necessità strategica di un’ampia alleanza tra le forze del centrosinistra che in una fase storica come quella che viviamo oggi l’algebra dei rapporti tra i partiti è davvero l’ultimo dei temi da utilizzare per provare a conquistare il maggior numero possibile di elettori. In un contesto proporzionale come quello in cui ci troviamo oggi, le alleanze che possono servire a un leader, alla Matteo Renzi, non sono quelle con i vari cespugli più o meno ben pettinati del centrosinistra ma sono quelle con i pezzi di paese che in questo momento sono alla ricerca di una leadership che forse ancora non c’è. Pisapia è ben pettinato, piace ai salotti, ha votato Sì al referendum costituzionale (non ditelo a D’Alema e Bersani), rappresenta un pezzo di paese che un segretario del Pd ha il dovere di coinvolgere nel suo progetto e se a Renzi riuscirà l’operazione di creare una nuova forma soft di big tent all’italiana (facendo sostanzialmente entrare Pisapia nel Pd senza dirlo a nessuno) non si potrà che considerare il tutto un’operazione di successo.

  

Ma il nodo cruciale che il segretario del Pd dovrà sciogliere nei prossimi mesi riguarda alcune alleanze molto più importanti rispetto a quelle possibili un giorno con l’ex sindaco di Milano. Sono le alleanze, queste sì strategiche, con quel pezzo d’Italia potenzialmente maggioritario che aspetta di ritrovarsi di fronte un leader che sappia mettere in campo in modo deciso una proposta del tutto alternativa a quella portata avanti dall’Italia della violenza verbale, della sciatteria, dell’assistenzialismo e dell’incompetenza rappresentata dai clown che si trovano alla guida di un movimento sfascista che solo una classe dirigente come quella italiana può considerare un pericolo come gli altri non solo per la nostra economia ma anche per la nostra democrazia.

   

La vera sfida di Renzi, nei prossimi mesi, non è quella di dimostrare di essere compatibile con l’Italia dei Jeremy Pisapia ma è quella di essere compatibile con un pezzo d’Italia che non chiede altro di avere una leadership credibile che sappia liberare le energie del nostro paese scommettendo non sullo sfascio ma sulla forza tranquilla della ragione. Per essere considerati un’alternativa al populismo grillino non può più essere sufficiente rispondere allo sfascismo solo scommettendo su alcuni confusi simboli (chi parla troppo di alleanze di solito lo fa per coprire la sua non visione sul futuro dell’Italia) ma è necessario diventare aggregatori di un’Italia produttiva, facendo una serie di cose drammaticamente semplici – e dunque drammaticamente complicate – che nel nostro paese nessun leader ha ancora avuto il coraggio di fare. Contrapporre alla fabbrica della post verità una fabbrica del buon senso. Mettere in contrapposizione all’Italia del populismo un’Italia del non immobilismo. Destrutturare l’Italia simbolo dell’assistenzialismo con un’Italia simbolo della produttività. E costruire infine il proprio consenso non soltanto escludendo dal proprio perimetro i nemici da rottamare ma includendo le energie e le intelligenze (ne servono di più) con cui ricostruire l’Italia.

   

Ci saranno molti modi per leggere l’esito delle elezioni amministrative ma prima di essere travolti dalla noia del dibattito sulle alleanze del centrosinistra (è quasi più interessante parlare di legge elettorale, davvero) è bene ricordare che la grande scommessa del riformismo oggi è questa: mettere a nudo, e senza paura, i problemi del paese; sfidare, e non assecondare, il sovversivismo delle classi dirigenti; occuparsi non più solo di rottamare ma di riformare e di rivoltare come un calzino i corpi intermedi dello stato; e dimostrare infine di saper risolvere i guai del nostro paese non con la logica cialtronesca dell’algebra ma con la rivoluzionaria logica del buon senso. Ci si può girare attorno quanto si vuole ma mai come in questo momento c’è un pezzo di Italia potenzialmente maggioritario che sogna di essere rappresentato da un leader cazzuto e capace di riportare rapidamente alla loro dimensione naturale di nullità una banda di incompetenti che sogna un giorno di guidare il paese e che al momento al massimo ha dimostrato di sapere gestire un blog. E’ il momento della ragione. E per metterla in campo non servono alleanze, ma serve solo un po’ di buon senso, oggi più che mai.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.