Da qui all'eternità, il civismo di Orlando prosciuga anche Grillo
Il ritorno dell’identico, il cambiamento continuo. Teorie e tecnica del “Professore”. Stavolta contro i partiti
Palermo. “Non sono riusciti a fermare il cambiamento”, ha recitato Leoluca Orlando, nelle ore ebbre della festa. E’ lui, ancora una volta, il sindaco di Palermo. La quinta volta, in trentadue anni. Il cambiamento, dice. In realtà, il Professore, così come lo chiamano in tanti, più che l’idea del mutamento trasmette quella dell’eternità. E’ lui a cambiare, rimanendo sempre al centro della scena. La stessa scena. “Siamo noi gli innovatori”, ha osato tra i brindisi. E bisogna sforzarsi un po’, per scovare la novità in quella esperienza politica iniziata con Sandro Pertini presidente della Repubblica. Con Giovanni Paolo II in Vaticano e il cardinale Pappalardo a Palermo. Ma c’è sempre una nuova novità, in questo eterno loop orlandiano che ipnotizza una Palermo che sembra amare il suo sindaco, persino mentre lo odia. In questa tornata elettorale è stata la volta del “civismo”. Ovvero di un progetto politico che ignora, abbatte, cancella le impalcature di partito.
Una “finta”, a dire il vero, del sindaco che studiò a Heidelberg, che parla il tedesco come fosse lingua madre, che fu democristiano tanto tempo fa e che oggi riceve l’endorsement del ministro all’Economia di Tsipras, Yanis Varoufakis; allo stesso tempo, con la stessa inesplicabile credibilità, Orlando sfodera il vernacolo di fronte al palermitano dei sobborghi, di fronte al precario del carrozzone comunale. Quelli per cui è sempre, a prescindere da tutto, il “sinnacollando”. Eccola, la variegata eternità di Orlando. Che si incarna persino nei numeri: in queste ultime elezioni amministrative ha ottenuto oltre il 46 per cento. Praticamente la stessa percentuale del 2012. Dopo cinque anni alla guida di una città difficile, che logorerebbe chiunque dal punto di vista del consenso e dell’immagine, Orlando non ha perso nemmeno un voto.
È lui l’unico tra i candidati nei capoluoghi di Regione a vincere al primo turno, “complice” una legge elettorale, quella siciliana, che apre le porte del Comune all’aspirante sindaco in grado di conquistare il quaranta per cento dei consensi. E in fondo, la forza politica di Leoluca Orlando sta anche nella capacità di indossare insieme le vesti di chi governa e di chi si oppone. Di chi fa l’antipolitica col piglio e la storia del politico. Non a caso, da presidente dell’Anci Sicilia, l’associazione dei sindaci dell’Isola, ha lanciato le proprie battaglie, a volte personali, contro la Regione guidata da Rosario Crocetta o contro la Confindustria isolana, in una guerra a chi è più genuinamente “antimafia”. Politico e antipolitico, appunto. Capace di macinare, da decenni, i temi e gli slogan che oggi sono del Movimento cinque stelle. Prosciugando, non a caso, le fonti stesse del consenso grillino a Palermo.
Orlando è sempre lì a recitare il ruolo di primo motore immobile di questa lunga esperienza. Al punto da poter chiedere al Partito democratico siciliano: “Se vuoi venire con me, devi rinunciare al tuo simbolo”. E così è stato. Orlando ha dettato il tempo, e ai dem non è rimasto che provare a dimenticare le accuse e le critiche quasi quotidiane lanciate nei mesi precedenti verso il primo cittadino palermitano. Anzi, i “big” del Pd siciliano, compreso il sottosegretario alla Sanità Davide Faraone, non hanno perso tempo per fiondarsi, dopo i primi esaltanti exit poll, verso il comitato elettorale di Orlando. Per ricevere qualche secchiata gelida, e una carezza: “Ringrazio anche il Pd che ha compiuto un passo indietro”. Indietro, i partiti. Sul proscenio rimane eternamente Leoluca. Che ha ovviamente brandito, come fa da trent’anni, l’eterno vessillo della lotta a Cosa nostra. Anche qui, incastrando i tasselli di una contraddizione.
Proprio lui, che fu indicato come “professionista dell’antimafia” da Sciascia, lui che attaccò Giovanni Falcone per le “carte tenute nei cassetti della Procura”. Una vicenda, quest’ultima, tirata fuori ancora una volta nei giorni scorsi dall’ex ministro Claudio Martelli: Falcone, ha ricordato, spiegò al Csm che l’attacco di Orlando al giudice era una ritorsione politica contro la scoperta, da parte del magistrato ucciso da Cosa nostra, del ruolo ancora centrale, in quegli anni in cui Orlando guidava il Comune, rivestito dal sindaco mafioso Vito Ciancimino. La varia, contraddittoria eternità di Orlando è anche questa. E la retorica della “palude”, indicata come minaccia incipiente sulla Palermo che stava finalmente cambiando grazie a un sindaco che non cambiava mai, riusciva persino a nascondere la presenza, nelle liste dello stesso Orlando, di uomini tradizionalmente vicini al centrodestra tanto disprezzato. Ex amici di Totò Cuffaro compresi.
Figlio della Dc e uomo della Primavera, uomo di spicco del grintoso giustizialismo in stile Di Pietro, ha tirato fuori stavolta, dal giacimento inesauribile delle suggestioni a sua disposizione, quella del “civismo”. I partiti? Che schifo, sembra dire oggi Orlando. Al punto da arrivare alla lite in diretta con Enrico Mentana che si era permesso di definirlo il candidato del Partito democratico. “Questo è il comportamento di un bambino” ha replicato stizzito l’anchorman. Di un eterno bambino, per essere precisi.